Le Operette morali si aprono con la Storia del genere umano, scritta tra il 19 gennaio e il 7 febbraio 1824. È un’operetta di grosso impegno poetico, un’operetta-epitome che il Leopardi concepí come preambolo a tutto il lavoro successivo e in cui egli riprendeva e rifondeva gli importanti problemi già precedentemente affrontati nello Zibaldone, armonizzandoli nella forma di un mito, sorretto da esempi di Platone, di Esiodo, di Ovidio.
Ma anche in questa operetta, che potrebbe sembrare la piú probante per certe tesi su tutte le Operette (quella per esempio del De Robertis, e cioè di miti poetici elaborati su di una materia già tutta espressa in sede intellettuale nello Zibaldone), vengono in realtà elaborati con piú chiarezza e precisione temi centrali e fecondi, come quello dell’infelicità degli uomini e della loro incolpevolezza. Il Leopardi aveva infatti molto insistito nel periodo precedente sulla volontaria corruzione degli uomini, su di un loro volontario “snaturamento”, tanto che egli trovava un’analogia tra il suo sistema della natura e il peccato originale sostenuto dal cristianesimo: ora invece, per il poeta, gli uomini sono infelici per le loro effettive calamità, non perché si siano distaccati volontariamente e peccaminosamente da uno stato di felicità provvidenziale e naturale.
Il grandioso mito-allegoria svolto nell’operetta è appunto quello dell’infelicità dell’uomo: su di esso il Leopardi non farà che ritornare, in una serie di circoli a spirale, che continuamente riattingono il punto tragico dell’esistenza umana e il suo squilibrio fondamentale. L’uomo ha in sé un innato, insopprimibile, disperato istinto alla felicità, ma questo istinto contrasta con un’altrettanto invincibile impossibilità di raggiungere questa condizione per lui indispensabile. C’è cosí un errore di fondo nella creazione dell’uomo, una discordanza tragica, che poi sarà meglio identificata nello squilibrio fra la natura umana e l’ordine dell’universo, preoccupato solo della trasformazione della materia e del mantenimento delle specie, non mai della felicità dei viventi.
Per ora, la decisa chiarezza con cui questo tema cosí fondamentale viene dal Leopardi messo al centro della sua ricerca e portato avanti ci indica come l’operetta, anche nelle riprese di elementi annunciati e trattati già precedentemente, si appoggi alla meditazione non ancora tutta consolidata e svolta dello Zibaldone, interna ai grandi temi dell’infelicità umana, della distinzione tra vita ed esistenza ancora prementi, urgenti nella mente del poeta e comunque tutt’altro che esauriti nella loro carica di novità.
La Storia del genere umano si configura in forma di cicli (le età del genere umano, due presociali e due sociali e storiche) e il suo ritmo poetico consiste appunto nel continuo ritorno a spirale, dal desiderio della felicità alla sua inattuabilità, cioè al punto dolente, drammatico, tragico della situazione umana; sicché per questa operetta certe definizioni generali e livellanti, come quella del distacco sorridente, appaiono assai improprie, poiché semmai si potrà sentire nel suo tono, nella sua atmosfera piú generale, radicata su un motivo profondamente drammatico, un senso di profonda malinconia, una luce di sconsolata compassione per l’uomo e per la sua sorte.
Questa partecipazione e compassione per la drammatica e infelice condizione esistenziale dell’uomo (frutto non di sua colpa, ma di uno sbaglio d’origine) vanno ben sottolineate anche nei confronti delle accuse di misantropia fatte al Leopardi, rivoltegli in parte anche dal De Sanctis, che parlò per le Operette di un che di acre e di misantropico. Invece già questo testo ci dice quale fosse l’atteggiamento leopardiano verso l’uomo e la sua condizione.
Infatti i molti attacchi che troveremo in altre operette contro gli uomini, le loro assurde speranze, le loro presunzioni, l’orgoglio di essere il genere per cui il mondo è stato fatto, non sono attacchi all’uomo in sé, ma a certe concezioni dell’uomo e sull’uomo, a certe filosofie di carattere provvidenzialistico, ottimistico o teologico.
La prima età dell’uomo è quella della creazione e della infanzia umana, avvolta in un clima favoloso, un’età di meraviglia, di stupori, di diletti, che si legano unicamente al senso. I primi uomini infatti, come i bambini, vivono una vitalità pura, in questa specie di smemorata zona senza tempo e senza storia. Essi non hanno la coscienza dell’esistenza, da cui scaturisce la loro infelicità.
Già l’inizio del componimento differenzia la posizione di questa operetta da quella, per esempio, che lo scrittore aveva sostenuto all’interno dell’Inno ai Patriarchi (nel luglio del ’22), dove si parlava di un’età primitiva in cui l’uomo era felice. Qui Leopardi fa una restrizione iniziale con un acuto gusto della cautela, della graduazione e della sfumatura, cosí lontano dall’eccesso sentimentale cui spesso giungevano le canzoni. Nell’epoca dell’infanzia, dello stupore in un mondo che è stato creato con certi limiti, ma con i diletti del senso sufficienti a procurare dei piaceri, gli uomini tuttavia non vivevano veramente felici. Essi «crescevano con molto contento, e con poco meno che opinione di felicità»[1]. Inoltre, quando cominciano a passare, quasi fisiologicamente, all’età matura e poi alla vecchiaia, gli uomini avvertono assai presto la limitatezza degli oggetti che prima li stupivano e contentavano; si avvedono che il mondo è piccolo (è il ritorno di un motivo di Ad Angelo Mai), che ha dei termini certi, non infiniti, che le cose sono sempre uguali e che l’esperienza riprospetta sempre le stesse situazioni. E per tutto questo:
[...] cresceva la loro mala contentezza di modo che essi non erano ancora usciti della gioventú, che un espresso fastidio dell’esser loro gli aveva universalmente occupati. E di mano in mano nell’età virile, e maggiormente in sul declinare degli anni, convertita la sazietà in odio, alcuni vennero in sí fatta disperazione, che non sopportando la luce e lo spirito, che nel primo tempo avevano avuti in tanto amore, spontaneamente, quale in uno e quale in altro modo, se ne privarono.[2]
Il suicidio, la morte volontaria (un altro dei grandi temi che qui ritornano) riempiono di stupore e quasi di orrore gli dei: personaggi che compaiono in questa operetta in una luce singolarmente complessa: non immediatamente aggrediti, come in altre posizioni leopardiane, ma visti in una luce di tolleranza, a volte quasi di simpatia. Essi stessi in realtà sono limitati e insufficienti, né possono violare le leggi dell’universo e si affannano inutilmente a capire le ragioni di questa singolare e orrenda eccezione della natura, per cui una specie vivente tende a sopraffare in sé l’istinto naturale della conservazione cercando la morte volontaria.
Giove allora delibera di migliorare lo stato umano ingrandendo e variando il mondo. È un altro degli aspetti poetici di questa operetta: Giove, gli dei limitati e di per sé lucrezianamente contenti, sono turbati dalla situazione tragica dell’uomo, per cui cercano di porvi rimedio, ma non ci riescono completamente, perché i loro provvedimenti sono come sfasati, impacciati, non colgono mai e non possono mai cogliere il centro preciso del problema umano; sicché essi stessi risultano in qualche modo umanizzati, a volte per l’eccessivo sdegno, a volte per l’eccessiva compassione.
È una pagina alacre di motivi suggestivi e profondamente poetici: Giove crea mari, fiumi, foreste, monti, in maniera che gli uomini non abbiano la possibilità di cogliere subito la limitatezza del mondo; poi carica gli uomini di bisogni, di fatiche e insieme cerca di dare loro la possibilità di compensi dell’immaginazione, perché quanti piú ostacoli ci sono tanto piú la vita può assumere interesse e l’uomo può crearsi «immagini perplesse ed indeterminate» e quindi essere condotto, se non alla «felicità», alla continuazione dell’esistenza.
Per questo nella seconda età gli uomini vissero un certo «buono stato», che è già qualcosa di meno dell’iniziale contentezza. «Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità, e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita» (si noti come le parole vengano al solito crescendo e centralizzando i grandi motivi leopardiani del sentimento della limitatezza dell’esistenza e del suo vuoto) «si ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll’estinto»[3].
Cresce qui la profonda e dolente musica tipica di questa operetta. Il Leopardi viene a prendere posizione contro importanti atteggiamenti foscoliani che egli aveva ben presenti, o viene a capovolgere richiami virilmente e orgogliosamente umanistici. La prima origine del congregarsi degli uomini nasce da occasioni ugualmente luttuose e rivelatrici dell’umana miseria, dato che ci si felicita e ci si congratula con l’estinto non perché questo va in un mondo migliore ma perché cessa per lui la pena del vivere, e si celebra con funerali e con lutti la nascita di un bambino sapendo che a lui si apre la pena del vivere.
A questo punto gli dei protestano, reagiscono in una delle maniere sbagliate che il Leopardi a loro attribuisce, dopo aver ben chiarito (in netto contrasto con tutte le teorie del peccato originale) che l’infelicità umana non nasce da altro che da una situazione tragica: «Perciocché s’ingannano a ogni modo coloro i quali stimano essere nata primieramente l’infelicità umana dall’iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei; ma per lo contrario non d’altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità»[4]. Si pensa già, in modo diverso, ma ben convergente, al grande «noi» di tutti gli uomini destinati, senza colpa e senza volontà, alla pena suprema dell’esistenza, come recitano i sublimi versi della canzone Sopra un basso rilievo antico sepolcrale: «A tutti noi che senza colpa, ignari, / né volontari al vivere abbandoni» (vv. 77-78). Cosí gli dei reagiscono con il diluvio universale, ripreso dalla tradizione classica e dalle Metamorfosi ovidiane.
Un altro degli elementi singolarmente poetici è la rappresentazione che il Leopardi fa, sempre in chiave pessimistica, del mito di Deucalione e Pirra, i quali hanno il compito di ricreare la razza umana dopo la distruzione provocata dal diluvio, da cui solo loro sono scampati.
Ora, mentre nel mito ovidiano Deucalione è tutto preso dall’altezza di questo compito («magari potessi io sopperire a quella distruzione, rimettere in vigore la razza umana ecc.»), sicché la stessa scelta del lancio delle pietre da cui nascono, dalla mano di Deucalione, gli uomini, e dalla mano di Pirra, le donne, è giustificata dal fatto che dal semplice atto creativo di una singola coppia non poteva ricrearsi immediatamente la razza umana, nella prospettiva leopardiana invece i protagonisti vivono il mito in una luce di estrema infelicità: «Deucalione e Pirra, affermando seco medesimi niuna cosa potere maggiormente giovare alla stirpe umana che di essere al tutto spenta, sedevano in cima a una rupe chiamando la morte con efficacissimo desiderio, non che temessero né deplorassero il fato comune»[5]. Questi due personaggi, visti in una luce cosí poetica di disperata solitudine, non desiderano affatto il rinnovamento dell’uomo; per loro il vero giovamento sarebbe di spengerlo totalmente e quindi di sopprimere se stessi, per cui non fanno altro che chiamare la morte con un desiderio intensissimo di partecipare al fato comune di dissoluzione della razza umana. «Non per tanto, ammoniti da Giove di riparare alla solitudine della terra; e non sostenendo, come erano sconfortati e disdegnosi della vita, di dare opera alla generazione; tolto delle pietre della montagna, secondo che dagli Dei fu mostrato loro, e gittatosele dopo le spalle, restaurarono la specie umana»[6].
Il Leopardi capovolge il mito: Deucalione e Pirra rifiutano volontariamente l’atto vitale della procreazione e l’atto stesso del lancio delle pietre, con cui essi saranno costretti dalle leggi di Giove a rinnovare comunque la razza umana, è sentito come qualcosa di forzato e di doloroso.
Dopo che gli uomini sono cosí ritornati alla loro triste esistenza, Giove crede, ancora una volta, di sopperire all’infelicità, alla scontentezza di questa singolare razza vivente, anzitutto cercando di introdurre i mali e di mescolarli ai beni per allontanare gli uomini dal conversare col proprio animo, cioè per distrarli da quella presa di coscienza del proprio essere che li porta al suicidio. Giove cerca di «divertirli quanto piú si potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità»[7]. E si noti come questo termine «felicità» venga arricchendosi fra vagheggiamento e delusione anche attraverso l’aggettivazione, diventando un motivo sempre piú intensamente poetico persino nelle parole che lo costituiscono e che quasi gli danno un suono diverso e privilegiato dentro la prosa in cui tante volte ritorna.
Cosí Giove introduce i mali, in maniera che essi portino gli uomini a sentire qualche piacere, perché la cessazione dei mali provoca un momento, seppure non duraturo, di piacere. E, d’altra parte, in quest’operazione piú complessa che Giove svolge, tra pietosa e crudele insieme (operando, coerentemente alla nota teoria leopardiana del piacere, in maniera che da questi rischi e minacce gli uomini traggano desiderio di vita e non la fuggano), egli minaccia l’umanità: crea il fulmine, il tuono, li spaventa e insieme manda sulla terra delle larve, dei fantasmi: «mandò tra loro alcuni fantasmi di sembianze eccellentissime e soprumane, ai quali permise in grandissima parte il governo e la potestà di esse genti: e furono chiamati Giustizia, Virtú, Gloria, Amor patrio e con altri sí fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu medesimamente uno chiamato Amore»[8]. È questa l’epoca dei greci, dei romani che tanto Leopardi aveva vagheggiato e sostenuto specialmente nel ciclo di canzoni del ’21-22 e che qui è qualificata come età di «fantasmi», di illusioni, di splendide larve che dettero indubbiamente grandi effetti, perché:
[...] dagli uomini furono riputate ora geni ora iddii, e seguite e culte con ardore inestimabile e con vaste e portentose fatiche per lunghissima età; infiammandoli a questo dal canto loro con infinito sforzo i poeti e i nobili artefici; tanto che un grandissimo numero di mortali non dubitarono chi all’uno e chi all’altro di quei fantasmi donare e sacrificare il sangue e la vita propria.[9]
È come un ritorno a quell’inno alle illusioni che il Leopardi aveva piú direttamente cantato nel periodo precedente, ma che qui è visto non piú tanto come qualcosa di partecipato e di rinnovabile nel mondo presente, ma come qualcosa di rimpianto entro una luce di mestizia e di nostalgia.
Gli uomini in questa maniera vivono un lungo periodo, in un progressivo logoramento di quell’iniziale spinta vitale che nasceva da tutto ciò che Giove aveva loro inviato: i mali da cui scaturiva il piacere, le illusioni che li portavano addirittura a spargere il sangue, la vita eroicamente vissuta; sicché a poco a poco cominciano a sentir rinnovarsi in loro «quell’amaro desiderio di felicità ignota ed aliena dalla natura dell’universo»[10]. Ed è un’altra sottolineatura di questo motivo poetico e filosofico insieme della felicità, disperatamente desiderata dagli uomini, ma ignota e aliena dalla natura dell’universo.
A questo punto gli uomini sono presi dalla passione per uno solo di quei fantasmi che Giove aveva inviato, la sapienza, e seguendo questo fantasma e la sua promessa di dar loro la verità cominciano a chiedere direttamente la verità stessa. Giove, sdegnato da queste pretese umane, invierà allora in terra la Verità stessa: è la quarta e ultima epoca, in cui gli uomini sono dominati dalla verità, che funziona come rivelazione ulteriore e definitiva del loro stato infelice, tale da condurli a quella coscienza dell’esistenza che si traduce in tedio, in noia, in disperazione.
Infine Giove, non sapendo piú cosa fare con gli uomini, domanderà agli dei se qualcuno di loro è disposto a scendere effettivamente in terra. Risponde solo il dio Amore, per la sua natura compassionevole. L’operetta si conclude con quest’ultimo motivo poetico dell’Amore, che però non introduce una soluzione di carattere positivo che ne rompa il clima di mestizia, perché esso appare come un’eccezione rarissima, non tale da compensare l’effettiva miseria umana.
È un mito supremo legato alle prospettive poetiche della canzone Alla sua Donna, la quale precede di pochi mesi l’operetta, anche se indubbiamente nella prosa poetica di questa è mitigato il fondo di tensione piú energica che si poteva avvertire nella canzone, fino a quella specie di “calore bianco” che distingue il capolavoro in versi:
Quando viene in sulla terra, [l’amore] sceglie i cuori piú teneri e piú gentili delle persone piú generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sí pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sí nobili, e di tanta virtú e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per se qualunque piú fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Dove egli si posa, dintorno quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità; quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agli Dei. E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli vi siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri.[11]
L’Amore quindi non conduce in realtà a un’attuale felicità, ma rinverdisce la speranza per pochi uomini di eccezione, sicché questo stesso carattere eccezionale non fa che confermare la regola comune della infelicità umana.
L’operetta è certamente una delle piú complesse e delle piú perfette. La luce di mestizia che la pervade le dà una singolare unità che non è affatto un puro e semplice prodotto di abilità di letterato o di artista, perché la sua atmosfera poetica nasce dall’intimo dei grandi temi che Leopardi vi ha inserito ed espresso.
A questa prima grande operetta seguono il Dialogo d’Ercole e di Atlante, il Dialogo della Moda e della Morte, la Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, piú un quarto testo, che Leopardi nel 1835 rifiutò, il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio.
Si tratta di un gruppo poeticamente meno alto, perché in esso il Leopardi viene svolgendo temi e problemi ben legati certo alle sue prospettive e non privi di rapporti con le operette seguenti, ma in qualche modo come piú marginali, come meno organici e centrali, quasi che egli, dopo la prima grandiosa operetta, avesse voluto come riaggredire a poco a poco la materia dolente e bruciante dei grandi temi delle Operette morali, attraverso questi testi meno direttamente impegnati.
Il Dialogo d’Ercole e di Atlante, scritto tra il 10 e il 13 febbraio, è incentrato sul tema della decadenza e morte dell’uomo, o addirittura della morte del mondo: un tema che il Leopardi riprenderà nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo con maggiore profondità e complessità. In questo dialogo il tema ha qualcosa di piú limitato ed è anche piú realizzato secondo l’intenzione lucianesca presente nel Leopardi fin dal ’19. Di qui la sua forma sollecitante alla lettura briosa, satirica, che tende anche al grottesco e al surreale, come già fu avvertito dal Russo.
Il Leopardi vi attua una specie di satira o commedia satirica in forma di dialogo con personaggi costruiti non come interi e complessi personaggi drammatici (lo desiderava, secondo il suo gusto romantico-realistico, il De Sanctis, che nella sua richiesta non comprendeva le vere intenzioni leopardiane), ma tuttavia non privi di vivacità e vitalità nella loro funzione di “voci” caratterizzanti un giuoco di situazioni e di atteggiamenti.
La voce di Ercole indica appunto un personaggio giovanile, spavaldo, sommario, deciso, dalla cui iniziativa parte tutta la breve azione. La voce di Atlante è una voce che appare piú smarrita, piú opaca, corrispondente a una situazione diversa e che compare in tanti personaggi delle Operette morali. Il conformista Atlante è una specie di funzionario di Giove, a cui è stato dato l’incarico di reggere la terra e che quindi è continuamente preoccupato dalla sua responsabilità, timoroso di sbagliare e di essere punito: la sua è la voce del sentimento mediocre degli uomini mediocri che Leopardi riprenderà poi molte volte, con una graduazione di maggiore energia o di maggior consapevolezza e individuazione, realizzandovi effetti artistici anche molto notevoli.
L’operetta ha soprattutto il pregio di un sottile giuoco a due voci, di battute assai rapide e intonate alla minore drammaticità del tema.
La stessa breve ed esile azione verte su di una specie di giuoco del pallone fatto con la sfera terrestre (si ricordi la canzone A un vincitore nel pallone, che dotava questo giuoco di significati eroici, mentre qui il giuoco è risolto in forme del tutto ironiche e grottesche) e che a un certo punto viene proposto da Ercole ad Atlante per risvegliare la terra che gli appare morta o semimorta. Ne risulta appunto un tono di tipo surreale e insieme un po’ libresco. Sono queste infatti le operette in cui piú si avverte, anche dal punto di vista della prosa, il pericolo di un eccessivo ricorso leopardiano all’esempio di certa prosa cinquecentesca, piuttosto che alla piú ardita e serrata prosa del Settecento illuministico, da cui viceversa egli trarrà l’appoggio non solo ideologico, ma persino formale per alcune delle sue operette piú intense e piú avanzate.
Ci sono battute piú vivaci come quando Ercole, avvertendo che la terra è ridotta a una «sferuzza» schiacciata e senza vita[12], dice soppesandola: «L’altra volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto»[13].
Ma ci sono anche cadute dai margini piú gustosi e surreali nel gracile e nel libresco, in quello che è stato detto un tipo di “scherzo da tavolino”. Come, ad esempio, quando Ercole, parlando della terra e replicando ad Atlante (timoroso della punizione di Giove) che egli non ha nessuna paura qualunque cosa Giove faccia, dice:
Ma sta sicuro che quando anche mi venisse fantasia di sconficcare cinque o sei stelle per fare alle castelline, o di trarre al bersaglio con una cometa, come con una fromba, pigliandola per la coda, o pure di servirmi proprio del sole per fare il giuoco del disco, mio padre farebbe le viste di non vedere. Oltre che la nostra intenzione con questo giuoco è di far bene al mondo, e non come quella di Fetonte, che fu di mostrarsi leggero della persona alle Ore, che gli tennero il montatoio quando salí sul carro; e di acquistare opinione di buon cocchiere con Andromeda e Callisto e colle altre belle costellazioni, alle quali è voce che nel passare venisse gittando mazzolini di raggi e pallottoline di luce confettate [...].[14]
Le stesse considerazioni si possono fare per il Dialogo della Moda e della Morte, dove Leopardi pone di nuovo come tema centrale la decadenza del mondo: prima esso è apparso del tutto morto, del tutto spento, adesso appare nel suo invecchiamento e nel suo avvicinarsi alla morte, sicché la Moda e la Morte dialogano su questo tema riconoscendosi sorelle, figlie della caducità, collaboratrici nel progressivo decadere della vitalità umana.
Come sempre, anche queste operette meno impegnative sono sottese dai grossi temi leopardiani, ma questi verranno piú direttamente inseriti solo nelle operette seguenti e con ben altra forza. Per ora vengono come sfiorati in punti marginali: ciò è particolarmente evidente in questa operetta che, anche come taglio, dopo una prima parte piú vivace, piú animata di battute rapide e piú capace di certe sfumature ironiche (la Moda «con quella vocina da ragnatelo», quasi a indicare l’esilità della voce di una cosa cosí frivola come è la Moda; e la Morte, chiamata dalla Moda «Madama Morte», con un gusto francesizzante che il Leopardi riteneva inerente a certe mode italiane del tempo), viene poi assumendo una certa pesantezza che risulta dallo scarso impegno interno su questo tema reso, tutto sommato, un po’ troppo superficiale.
Tutto ciò può comportare al massimo alcune punte piú intense e piene anche di sottintesi come quando la Moda, parlando (nel secolo della Morte, e proprio per la stessa voracità della Moda) della gloria e della immortalità di cui tanto si sono vantati gli uomini attualmente, dice: «io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi»[15]. È un’espressione che poteva, di fronte ad altre orgogliose affermazioni (per esempio, nell’epitaffio del Camposanto di Pisa sulla tomba dell’Algarotti, il verso oraziano a cui molto probabilmente pensava il Leopardi: Non omnis moriar), richiamare il Leopardi al senso della scomparsa totale dell’individuo, sia nella storia successiva sia in senso piú assoluto. Il sentimento leopardiano della morte dell’individuo è quindi piú vicino all’epigrafe materialistica del Cremonini, che fece scrivere sulla sua tomba: Hic iacet Cremoninus totus.
Questa minor tensione si fa ancora piú chiara, a indicare il logorarsi di questa prospettiva piú marginale e piú apertamente ironico-satirica, e di questa non capacità o non volontà del Leopardi di assumere piú centralmente i suoi grandi problemi, quando si passa alla Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (che, tra l’altro, abbandona la forma dialogica per presentarsi come una breve narrazione). In essa (pur essendo presenti degli spunti notevoli, sempre schiettamente leopardiani, in particolare quello della decadenza del mondo presente in cui mancano certe virtú fondamentali dell’uomo) tutto viene però troppo ridotto a una satira delle accademie del tempo, alle scienze e al cosiddetto “progresso” delle scienze e dell’uomo, contro cui il Leopardi prende posizione, ma non cosí decisamente come farà piú tardi, fino agli esiti della Palinodia del ’35.
Egli immagina che questa accademia proponga tre premi per inventori di tre macchine (di quelle macchine in cui il secolo tanto fidava da pensare a una sostitutività dell’uomo da parte di automi): la macchina dell’amico fedele, la macchina dell’uomo magnanimo e infine la macchina della donna fedele e virtuosa.
Quanto al verso inizialmente citato («Del fortunato secolo in cui siamo, come dice un poeta illustre»)[16], si può ricordare che, contrariamente all’ipotesi del piú importante e acuto commentatore delle Operette, il Fubini[17] (il quale, di fronte agli insuccessi dei precedenti studiosi sull’identità di quel «poeta illustre», ha pensato a un’invenzione leopardiana di un verso volutamente ridicolo e prosaico, attribuito, anche per farsi beffa di altri reali e falsi pseudoversi, a un poeta non solo reale ma «illustre»), esso appartiene al poema Gli animali parlanti del Casti[18], dove aveva già un senso ironico-aggressivo contro il falso progressismo e ottimismo. Il Leopardi l’ha ripreso lievemente modificandolo (con il passaggio al singolare da «Dei fortunati secoli in cui siamo» a «Del fortunato secolo in cui siamo»), e attribuendolo direttamente all’Ottocento. L’importante di questa precisa ripresa è che essa è derivata da uno scrittore dell’illuminismo piú antiottimistico, aggressivo, antimitologico e antidogmatico.
Il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio, composto subito dopo la Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, era stato pubblicato nell’edizione delle Operette del ’27 e del ’34. Ma nel ’35 a Napoli, nella revisione finale del libro, il Leopardi lo escluse, e giustamente, proprio perché il suo ultimo giudizio su questa operetta troppo debole e periferica e che finisce in una satira di tipo grammaticale-retorico era diventato tanto piú chiaro e severo.
Un lettore d’umanità (c’è un’implicita ironia su questa eccezione retorica della parola «umanità») rimprovera a Sallustio, redivivo, il fatto che, introducendo il discorso di Catilina per infiammare i suoi guerrieri, egli aveva elaborato l’esortazione nella forma retorica della gradazione, secondo la quale le cose piú importanti vanno messe in fondo come culmine. Ma, dice il retore, Sallustio ha compiuto un errore grossolano perché prima ha messo le ricchezze, poi l’onore, poi la gloria, infine la libertà e la patria, sicché sembrerebbe che le cose piú importanti fossero queste ultime; viceversa nella realtà umana le cose sono tutte al contrario, al punto che Sallustio avrebbe dovuto mettere le ricchezze in fondo e, al primo posto, la libertà e la patria come piú insignificanti.
Si è già detto che la ragione dell’esclusione di questa operetta è certamente di gusto. Ma non certo perché, come pure si è pensato, al Leopardi piú maturo questo dialogo potesse dispiacere in quanto insolentiva la libertà e la patria: esso al contrario ci conferma al solito la sua potente aspirazione a valori che egli trovava decaduti nel mondo presente.
La pressione maggiore delle Operette morali ricomincia con il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, scritto dal 2 al 6 marzo del 1824. È un’operetta che viene riprendendo un problema già preso in considerazione nel Dialogo d’Ercole e di Atlante (il tema della scomparsa degli uomini dalla terra), ma lo approfondisce e lo porta a un esito tanto piú intenso e tanto artisticamente piú efficace in quanto direttamente ricondotto al motivo piú importante per il Leopardi di questo periodo: la polemica contro concezioni superbe e presuntuose per le quali il mondo sarebbe fatto per l’uomo, non solo centro dell’universo, ma padrone di tutte le cose del mondo. L’operetta elabora perciò un tema aggressivo, bruciante e profondo e da questo certamente essa ricava una piú forte resa artistica, connessa, appunto, alla maggiore complessità e pressione del problema trattato e fatto agire poeticamente (pur mantenendo certi aspetti piú briosi, favolosi e suggestivi, recuperati dalla vecchia prospettiva lucianesca; si fanno parlare esseri fantastici, come un folletto e uno gnomo, servendosi, specie all’inizio, di battute assai rapide e vicine a quelle dell’Ercole e Atlante).
Intanto lo stesso tema della morte degli uomini assume in questo dialogo un senso poeticamente piú suggestivo e piú vasto: quest’improvvisa scomparsa dell’uomo (di cui si parla come di cosa lontana, come di un ricordo) già crea una dimensione internamente fantastica. Nella seconda parte poi, quando lo Gnomo e il Folletto parlano delle vane e superbe presunzioni degli uomini e giungono tra loro a un battibecco:
FOLLETTO: E non volevano intendere [gli uomini] che egli [il mondo] è fatto e mantenuto per li folletti.
GNOMO: Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.
FOLLETTO: Perché? io parlo bene sul sodo.
GNOMO: Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?[19]
Il Leopardi aggressivamente estende la frivolezza degli uomini a tutte le possibili immaginarie specie viventi, qualora vengano intese antropomorficamente; sicché anche gli animali, i folletti, gli gnomi direbbero superbamente e frivolamente che il mondo è fatto a loro misura e per loro.
Quando poi il discorso torna sulla sciocchezza degli uomini, che vedono le cose fatte per i loro fini, Leopardi porta avanti tutta una rappresentazione della presunzione umana assai efficace anche nel suo “crescendo”:
GNOMO: Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?
FOLLETTO: Sí erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.
GNOMO: In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.
FOLLETTO: Ma i porci, secondo Crisippo, erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.
GNOMO: Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.[20]
La frase ironica su Crisippo è carica di sensi assai complessi: meglio un po’ piú di ragione, di «sale» (che distrugge gli errori, i deliri, come li chiamerà piú tardi Leopardi, della mente umana) che non quell’«anima» di cui si diceva che anche i porci erano dotati per mantenerli in vita e per non imputridire.
Rispetto alla zona precedente, in cui si sentiva veramente un che di libresco, questi “scherzi” cominciano ad assumere un senso piú interno e una piú coerente funzionalità artistica, per cui il “riso” leopardiano diventa qualcosa di profondamente serio e drammatico, e tutt’altro che distaccato e sorridente, come poi avverrà, a livello piú alto, soprattutto nel Dialogo della Natura e di un Islandese, dove anche certe battute ironiche e certe trovate satiriche saranno strettamente funzionali in una direzione artistica piú profonda.
Il dialogo finisce con il quadro della scomparsa degli uomini:
FOLLETTO: Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia piú da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si raschiughi.
GNOMO: E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
FOLLETTO: E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.[21]
Il Leopardi, nell’espressione sull’oscurarsi del sole per la morte di Cesare, sembra riprendere volutamente dalle sue stesse canzoni certe prospettive piú ardenti come quella espressa nel verso «Né scolorò le stelle umana cura»[22]. Ma qui tutto quanto viene rivolto contro la presunzione e la superbia umana. Non è affatto vero, dunque, che là dove Leopardi assume posizioni decise e aggressive sfiora il pericolo dell’oratoria e dell’astratta polemica. Anzi, la forza artistica del suo stesso discorso poetico, la forza della sua prosa nella sua direzione specifica, è tanto maggiore quanto piú questi elementi interi premono e premeranno entro la prosa delle Operette.
Dopo il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, c’è nel marzo del ’24 un’interruzione nella scrittura delle Operette, che riprende nell’aprile, dall’1 al 3, con il Dialogo di Malambruno e di Farfarello, col quale si apre una nuova grande zona delle Operette morali.
Nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello il Leopardi riaffronta, con energia piú serrata e drammatica che non nel mito poetico e filosofico della Storia del genere umano, il grande tema della felicità. C’è anche qui, d’altra parte, l’uso di elementi ironici, ma sempre condotti a un livello piú aggressivo e sarcastico, e piú direttamente rapportati al fondo drammatico e disperato di questa operetta.
Il suo leitmotiv è costituito dalla richiesta disperata di felicità di «un momento», di un solo e puntuale «istante» di felicità da parte degli uomini, e dalla costatazione della impossibilità di ottenerlo.
Il ritmo che traduce questo grande tema è singolarmente efficace, intenso, lucido e serrato, tra i piú tipici delle Operette morali. Mentre nelle prime operette potevamo avvertire di piú certe consonanze del Leopardi con una base letteraria cinquecentesca (ad esempio il Gelli e la sua Circe) e altrove potremo trovare consonanze con un tipo di prosa morale settecentesca, per esempio quella di Gasparo Gozzi, piú alleggerita e meno profonda, qui invece si avverte che il Leopardi ha fortemente risentito e utilizzato la lezione anche stilistica di certo illuminismo, soprattutto francese. C’è qui la presenza del Voltaire piú duro e piú consequenziario del Candide o di certe voci del Dictionnaire philosophique e della prosa degli illuministi materialisti francesi come il D’Holbach.
La giusta considerazione della presenza della prosa illuministica francese giova fra l’altro a spostare il giudizio sulla scrittura delle Operette morali rispetto all’accusa desanctisiana di un’eccessiva aulicità; accusa dovuta, oltreché alla prospettiva romantico-realistica del critico, anche alla sua impressione di un raccordo della prosa leopardiana solo con la tradizione di certo Cinquecento e di certo Settecento esclusivamente italiano.
Il Dialogo di Malambruno e di Farfarello è impostato su due voci. Una è quella di Malambruno. A questo uomo esperto della vita e tuttavia ancor piú teso al desiderio supremo della felicità, risponde la voce del diavolo Farfarello che viene sulla terra ai servizi del mago per aiutarlo (in un colloquio rapido, serrato, con battute fortemente espanse) a condurre la sua pessimistica esperienza della vita alle estreme conseguenze: e cioè che per gli uomini è impossibile cogliere la felicità anche per un solo attimo. Tanto che la conclusione del dialogo sarà (proprio «assolutamente parlando», come dice Malambruno, cioè rifiutando gli aspetti speciosi o piú superficiali della vita, ma mirando alle verità nude e supreme) che «il non vivere è sempre meglio del vivere»[23].
Malambruno comincia dunque evocando (con un tono ansioso, tipico di questa figura dell’uomo che, avendo fatto tutte le esperienze particolari, ha l’ansia suprema di tentare almeno la ricerca dell’attimo di felicità) gli spiriti infernali, di abisso. A lui risponde Farfarello, che compare magicamente sulla scena e (in una scala di domande e risposte, estremamente efficaci e artisticamente potenti) gli farà una serie di proposte (prima che Malambruno renda esplicito il suo preciso desiderio della felicità) alle quali Malambruno replicherà solo con secchi rifiuti, di una forza drammatica eccezionale, colmi di implicazioni inquietanti:
FARFARELLO: [...] Che vuoi? nobiltà maggiore di quella degli Atridi?
MALAMBRUNO: No.
FARFARELLO: Piú ricchezze di quelle che si troveranno nella città di Manoa quando sarà scoperta?[24]
MALAMBRUNO: No.
FARFARELLO: Un impero grande come quello che dicono che Carlo quinto si sognasse una notte?
MALAMBRUNO: No.
FARFARELLO: Recare alle tue voglie una donna piú salvatica di Penelope?
MALAMBRUNO: No. Ti par egli che a cotesto ci bisognasse il diavolo?[25]
FARFARELLO: Onori e buona fortuna cosí ribaldo come sei?[26]
MALAMBRUNO: Piuttosto mi bisognerebbe il diavolo se volessi il contrario.[27]
Dopo questa serie di battute, in cui Malambruno non fa altro che opporre questi «No», emerge la domanda piú intensa e drammatica del dialogo quando Farfarello dice: «In fine, che mi comandi?» e Malambruno risponde: «Fammi felice per un momento di tempo»[28].
Enunciata questa domanda fondamentale, si capovolge, con grande efficacia artistica, il rapporto del dialogo: adesso sarà Farfarello a opporre i suoi “no”. Ma mentre le risposte negative di Malambruno erano dettate dalla volontà, queste di Farfarello indicano la sua insufficienza. Persino gli spiriti dell’inferno hanno infatti dei limiti, possono dare all’uomo tante cose, apparentemente importanti, ma non gli possono dare ciò che costituisce il fine stesso della vita umana: la felicità.
FARFARELLO: Non posso.
MALAMBRUNO: Come non puoi?
FARFARELLO: Ti giuro in coscienza che non posso.
MALAMBRUNO: In coscienza di demonio da bene.
FARFARELLO: Sí certo. Fa conto che vi sia de’ diavoli da bene come v’è degli uomini.
MALAMBRUNO: Ma tu fa conto che io t’appicco qui per la coda a una di queste travi, se tu non mi ubbidisci subito senza piú parole.
FARFARELLO: Tu mi puoi meglio ammazzare, che non io contentarti di quello che tu domandi.
MALAMBRUNO: Dunque ritorna tu col mal anno, e venga Belzebú in persona.[29]
Farfarello risponderà che anche se venisse Belzebú in persona, questi non potrà far felice né Malambruno né altri della specie umana. Malambruno domanderà allora, aprendo la seconda parte del dialogo: «Né anche per un momento solo?» e Farfarello risponde: «Tanto è possibile per un momento, anzi per la metà di un momento, e per la millesima parte; quanto per tutta la vita»[30].
Giunto di fronte a questo ostacolo assoluto, Malambruno ripiegherà su di un’altra possibilità: che almeno il demonio gli conceda di liberarlo dall’infelicità. È la seconda parte del dialogo, in cui è perseguita con ferma coerenza questa dimostrazione disperata e lucida di una verità suprema; l’uomo è chiuso in un circolo assoluto, costrittivo, nel quale non può né avere la felicità, neppure per un momento, né esser libero dall’infelicità. Cosí la conclusione del dialogo sarà: «assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere». E quando alla fine Malambruno domanderà: «Dunque?» e Farfarello risponderà: «Dunque se ti pare di darmi l’anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela»[31], l’unica soluzione possibile per uscire dall’infelicità apparirà essere la morte.
Il dialogo alza enormemente il tono e il livello dei problemi che il Leopardi viene svolgendo e a cui è legato il successivo Dialogo della Natura e di un’Anima. Questo si imposta sempre sul problema felicità-infelicità, a cui sottostà il tema vita-esistenza già abbozzato nello Zibaldone degli ultimi mesi del ’23. Qui il Leopardi rivede il problema (con forti implicazioni autobiografiche) nella prospettiva di un uomo eccezionale, di un’anima grande, che proprio per la sua eccezionalità partecipa non solo della sorte di tutti gli uomini, ma è caricata ulteriormente di una disposizione particolare all’infelicità.
Il dialogo è anche animato dal contrasto tra la voce dell’uomo grande e la voce della natura, chiamata direttamente in causa, con un giuoco piú complicato di quello che avrà luogo poi nel decisivo Dialogo della Natura e di un Islandese, in cui l’evidente forte ripresa degli elementi di rottura verso la natura benefica, già apparsi nell’Ultimo canto di Saffo, verranno portati a conclusioni piú esplicite e piú aggressive. Qui la natura è presentata ambiguamente: l’Anima si rivolge a lei come a una madre ed essa la chiama «figliuola mia», ma questa maternità e figliolanza vengono rivelandosi come assurde:
NATURA: Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice.
ANIMA: Che male ho io commesso prima di vivere, che tu mi condanni a cotesta pena?
La natura è, come avviene per gli dei della Storia del genere umano, sempre un po’ sfasata rispetto alle domande dell’anima-uomo. Non c’è corrispondenza e la natura è estranea, malgrado la sua asserita condizione di maternità, ai veri problemi dell’uomo. Tanto da rispondere:
NATURA: Che pena, figliuola mia?
ANIMA: Non mi prescrivi tu di essere infelice?
NATURA: Ma in quanto che io voglio che tu sii grande, e non si può questo senza quello. Oltre che tu sei destinata a vivificare un corpo umano; e tutti gli uomini per necessità nascono e vivono infelici.[32]
Quest’operetta inoltre (contrariamente ad alcuni giudizi correnti su di essa) non tocca solo il problema dell’uomo grande ed eccezionale e perciò infelice. In realtà non è che gli altri uomini possano essere mediocri e felici. Tutti sono infelici. Anzi, la prima ragione per cui l’anima grande è infelice, è la sua partecipazione alla condizione umana: ma in piú, essa, appartenendo a una particolare condizione (cioè essendo dotata di una maggiore sensibilità e intensità di sensazioni), sente la sproporzione tra i suoi infiniti desideri di felicità e la miseria della vita.
L’operetta sviluppa questo tema centrale con apparenti deviazioni su altri temi che si raccordano con quelli di altre operette. Cosí il tema della gloria, su cui la natura insiste per mostrare quale importante compenso essa darebbe all’uomo infelice ma grande, e che sarà direttamente ripreso e approfondito nel Parini, ovvero della gloria. Già qui Leopardi dice che la gloria è un bene superficiale e vano, contrapposto all’unico bene consistente, a cui l’uomo tende (la sua felicità) e che gli è viceversa negato.
In realtà anche qui il Leopardi riprende la sua continua opera di distinzione tra vanità e realtà, tra le consolazioni effimere e insufficienti e ciò che veramente preme all’uomo; come avviene nel finale là dove la voce opaca e neutra della natura afferma che l’uomo grande dopo morto avrà tanti onori e magari riposerà con le sue ceneri in una «sepoltura magnifica» (ripresa chiara della grande lettera sulla tomba del Tasso)[33].
Questa operetta va al di là delle conclusioni del Dialogo di Malambruno e di Farfarello, giungendo a ipotizzare varie soluzioni: l’anima dotata di qualità eccezionali chiederà infatti l’abbrutimento, dato che la sensibilità, la ricchezza di vita interiore quanto maggiori sono, tanto piú portano all’infelicità; oppure chiederà di essere privata della radice stessa della sensibilità e quindi della richiesta di felicità; o infine, chiederà una morte rapida e rifiuterà l’immortalità della gloria.
A questa operetta, che viene svolgendo e approfondendo i temi impostati nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello, segue il Dialogo della Terra e della Luna, che Leopardi compose dal 24 al 28 aprile 1824.
Il dialogo è sembrato, specialmente al Fubini, diverso dai precedenti e ambiguo, tale che, pur contenendo temi profondi, ricondurrebbe a un gusto ironico, quasi di divertimento, dal sapore lucianesco.
In realtà, chi voglia comprendere questa operetta dovrà notare che la sua diversità è tutta apparente e che in effetti essa è percorsa da un filo interno assai solido. Il brio della prima parte (piú divertita che intensa) approfondisce infatti, attraverso la voce vana e frivola della Terra, le forti implicazioni con cui il Leopardi combatte il geocentrismo e l’antropocentrismo, la stolta superbia dell’uomo che intende misurare sul suo metro tutto l’universo. Leopardi, con la carica aggressiva del suo illuminismo, vuole liberare l’uomo da ogni falsa e stolta credenza per arrivare a verità sconsolanti, ma che sono le sole che possono, proprio perché vere, condurre a un minimo di positività, impossibile se l’uomo non si libera da questi frivoli miti e stolte superbie. La Terra crede che tutto il mondo sia fatto sulla sua misura e su quella dell’uomo e in tal modo parla alla Luna con un linguaggio per questa quasi incomprensibile; donde anche la bellezza del contrasto di toni che non s’incontrano. La Luna viceversa, che sembra la voce piú profonda di una condizione generale, universale, non capisce e risponde sostenendo che i mondi sono diversi tra di loro e smentendo l’idea sciocca che in ogni parte dell’universo si ritrovi la condizione dell’uomo. Questa prima parte non è dunque un puro divertimento ma vibra della satira aggressiva contro l’antropocentrismo.
La saldatura fra la prima e la seconda parte è costituita dalla risposta della Luna sulla condizione di infelicità profonda che è l’unico punto in comune tra gli esseri (diversissimi dall’uomo) degli altri mondi, e l’uomo stesso. Poi nell’ultima parte, che introduce il motivo piú nuovo e piú grande, la Terra domanderà:
Almeno mi saprai tu dire se costí sono in uso i vizi, i misfatti, gl’infortuni, i dolori, la vecchiezza, in conclusione i mali? intendi tu questi nomi?
LUNA: Oh cotesti sí che gl’intendo; e non solo i nomi, ma le cose significate, le conosco a maraviglia: perché ne sono tutta piena, in vece di quelle altre che tu credevi.[34]
La Luna non aveva capito né accettato gli strani miti antropocentrici e geocentrici secondo cui tutti gli altri esseri viventi sarebbero come gli uomini, e tutti gli altri mondi come la Terra.
C’era prima un’impossibilità di comprensione fra le due voci, ma adesso, quando la Terra nomina i mali, la Luna dice di comprendere e conoscere tutto ciò perfettamente:
TERRA: Quali prevalgono ne’ tuoi popoli, i pregi o i difetti?
LUNA: I difetti di gran lunga.
TERRA: Di quali hai maggior copia, di beni o di mali?
LUNA: Di mali senza comparazione.
TERRA: E generalmente gli abitatori tuoi sono felici o infelici?
LUNA: Tanto infelici, che io non mi scambierei col piú fortunato di loro.[35]
Si apre qui il tema piú nuovo e aggressivo di questa operetta: l’universo pur cosí vario e cosí diverso da come l’uomo l’ha concepito o seguita a concepirlo (cioè un universo umanizzato, mondanizzato, simile alla terra e all’uomo) ha però in comune con l’uomo il dolore, anzi tutto l’universo ha un unico denominatore comune, il dolore e l’infelicità.
L’operetta conduce, con un filo organico e centrale, a questo tema profondo (prima muovendo dalla satira ironica della frivolezza umana che ha risorse perfino grottesche e surreali, emerse già nel Dialogo d’Ercole e di Atlante, come quando la Terra immagina che sulla Luna avvenga tutto ciò che avviene sulla Terra, anche le azioni piú domestiche dell’uomo, e che magari anche sulla Luna si stenda «un bucato al sole»): il tema dell’infelicità universale che può avere punti di contatto (ma con una direzione assai diversa) con il Weltschmerz, il dolore universale, presente in particolare nel romanticismo tedesco. Ma in Leopardi, pur in questa consonanza, non c’è nessun compiacimento, come avveniva per esempio nell’Ortis foscoliano: egli non chiede piú che tutto l’universo “gema” con l’individuo, vuol solo disperatamente e lucidamente evidenziare con intera forza poetica una verità che coinvolge l’uomo e l’universo insieme.
Da questa estensione del dolore dell’uomo a tutti i possibili viventi dell’universo, il Leopardi ritorna a piú fortemente rappresentare l’assoluta imperfezione umana e la stoltezza di ogni superbia religiosa o umanistica.
Il problema fondamentale della Scommessa di Prometeo (scritta dal 30 aprile all’8 maggio) è infatti la completa imperfezione dell’uomo, fin dalla sua origine. Al solito, anche in questa operetta non si tratta tanto di misantropia, quanto di una denuncia d’ogni concezione ottimistica sia di carattere religioso o trascendente (qui certo l’uomo non appare fatto “a immagine di Dio”), sia di carattere prometeico-umanistico. Il supporto della polemica è dato da elementi illuministici antiottimistici: la teoria dell’armonia prestabilita del Leibniz, cui si allude esplicitamente, è assalita infatti da una prospettiva assai simile a quella espressa dal Candide di Voltaire.
L’operetta è centrata su questo importante e profondo tema polemico (secondo la linea delle Operette morali che, come fu già accennato, sono legate nei loro svolgimenti artistici, non di pura fantasia evasiva o di capriccio malinconico, a temi consistenti di battaglia culturale e ideologica) cui corrispondono una forte efficacia, un’“alacrità” e fertilità artistiche che rinnovano, in questa zona piú intensa, l’impostazione e il taglio, qui mescolando procedimenti narrativi con procedimenti dialogici.
La prima parte è una esposizione della scommessa con Momo, il dio della calunnia, a cui Prometeo è stato costretto per difendere la sua invenzione, l’uomo, dalla sconfitta in un concorso fra gli dei che avessero inventato la cosa piú utile e piú perfetta: hanno avuto il premio Bacco per l’invenzione del vino, Minerva per quella dell’olio, e Vulcano per una pentola di rame detta economica perché serve a cuocere qualsiasi cosa con piccolo fuoco e speditamente; ma non è stato premiato Prometeo, che perciò è molto scontento.
Uno degli obiettivi evidenti del testo è la degradazione delle mitologie, non solo delle piú moderne ma anche delle piú antiche; gli dei sono ridotti a paragoni estremamente umili e volgari. E d’altra parte è colpito il mito rappresentato dall’orgoglio umanistico di Prometeo, che ritiene di aver fatto la cosa piú degna creando l’uomo, donandogli la scintilla divina, civilizzandolo: a Momo, che non è affatto convinto di tutto ciò, egli propone una scommessa e, volendo dimostrargli con esempi concreti che la sua creatura è veramente perfetta, lo invita a intraprendere un viaggio sulla terra abitata, alla verifica della condizione dell’uomo.
Alla parte espositiva segue allora, in questa operetta piú mossa anche come impostazione artistica, una parte narrativa che, acuta, analitica, lucida com’è ha quasi il tono di un romanzo settecentesco.
Prometeo e Momo, anzitutto, vanno verso il continente nuovo, l’America, verso quel continente che «per non avervi posto piede insino allora niuno degl’immortali, stimolava maggiormente la curiosità»[36]. È una battuta piena di tensione aggressiva: il Leopardi allude satiricamente al fatto che, mentre i vecchi continenti sono stati visitati dagli antichi dei della mitologia o magari dalle discese del Cristo o di Budda, l’America è l’unica dove gli immortali non hanno ancora posto piede.
Dopo di ciò, essi cominciano il viaggio. Si apre una pagina molto efficace su cui in genere la critica (il Fubini e altri) ha puntato lo sguardo, tendendo al recupero di elementi piú schiettamente poetici e suggestivi.
In realtà la poesia di questa pagina sul viaggio che Momo e Prometeo fanno in America, per esattezza nella Columbia, nasce in forza degli elementi intellettuali di critica e di satira filosofica che sollecitano e arricchiscono artisticamente lo stesso senso dolente, malinconico e misterioso del paesaggio nuovo e disabitato che si presenta agli occhi di questi due visitatori mitologici. Il Leopardi narra che i due:
Fermarono il volo nel paese di Popaian, dal lato settentrionale, poco lungi dal fiume Cauca, in un luogo dove apparivano molti segni di abitazione umana: vestigi di cultura per la campagna; parecchi sentieri, ancorché tronchi in molti luoghi, e nella maggior parte ingombri; alberi tagliati e distesi; e particolarmente alcune che parevano sepolture, e qualche ossa d’uomini di tratto in tratto. Ma non perciò poterono i due celesti, porgendo gli orecchi, e distendendo la vista per ogn’intorno, udire una voce né scoprire un’ombra d’uomo vivo. Andarono, parte camminando parte volando, per ispazio di molte miglia; passando monti e fiumi; e trovando da per tutto i medesimi segni e la medesima solitudine. Come sono ora deserti questi paesi, diceva Momo a Prometeo, che mostrano pure evidentemente di essere stati abitati?[37]
Il senso misterioso e suggestivo di questo paesaggio desolato (ma che insieme reca i segni di una precedente abitazione umana) è raccordato all’impressione che ne trarrà Momo: questo essere perfetto che una volta abitava questi paesi, com’è scomparso? Come mai in questi paesi troviamo ancora delle razze inferiori di esseri viventi, i pappagalli, i formichieri? Dunque queste razze sono piú resistenti, piú valide di questa creatura “perfetta”?
La suggestione fantastica che qui si crea non è qualcosa a se stante, ma è legata al movimento polemico-satirico, che Leopardi esprime attraverso questa rappresentazione:
Prometeo ricordava le inondazioni del mare, i tremuoti, i temporali, le piogge strabocchevoli, che sapeva essere ordinarie nelle regioni calde: e veramente in quel medesimo tempo udivano, da tutte le boscaglie vicine, i rami degli alberi che, agitati dall’aria, stillavano continuamente acqua. Se non che Momo non sapeva comprendere come potesse quella parte essere sottoposta alle inondazioni del mare, cosí lontano di là, che non appariva da alcun lato; e meno intendeva per qual destino i tremuoti, i temporali e le piogge avessero avuto a disfare tutti gli uomini del paese, perdonando agli sciaguari, alle scimmie, a’ formichieri, a’ cerigoni, alle aquile, a’ pappagalli, e a cento altre qualità di animali terrestri e volatili, che andavano per quei dintorni.[38]
Si passa continuamente dal tono narrativo a un tono piú suggestivo e infine a un tono satirico. Ma tutti questi elementi sono tra di loro interdipendenti, coerenti e non permettono l’isolamento di uno solo di essi, perché qui la poesia nasce da un impianto organico e da un movimento piú intenso:
In fine, scendendo a una valle immensa, scoprirono, come a dire, un piccolo mucchio di case o capanne di legno, coperte di foglie di palma, e circondata ognuna da un chiuso a maniera di steccato: dinanzi a una delle quali stavano molte persone, parte in piedi, parte sedute, dintorno a un vaso di terra posto a un gran fuoco. Si accostarono i due celesti, presa forma umana; e Prometeo, salutati tutti cortesemente, volgendosi a uno che accennava di essere il principale, interrogollo: che si fa?[39]
Nella narrazione si inserisce questo dialogo serrato, minuto, fatto di piccole battute, che arricchiscono originalmente la stessa composizione artistica dell’operetta:
SELVAGGIO: Si mangia, come vedi.
PROMETEO: Che buone vivande avete? [Di fronte alla sciocca cordialità di Prometeo, il selvaggio funzionerà come rivelatore della vera natura umana].
SELVAGGIO: Questo poco di carne.
PROMETEO: Carne domestica o salvatica? [Prometeo pensa naturalmente ad animali].
SELVAGGIO: Domestica, anzi del mio figliuolo.
PROMETEO: Hai tu per figliuolo un vitello, come ebbe Pasifae?
SELVAGGIO: Non un vitello ma un uomo, come ebbero tutti gli altri.
PROMETEO: Dici tu da senno? mangi tu la tua carne propria?
SELVAGGIO: La mia propria no, ma ben quella di costui [...].
Non solo qui viene distrutto il mito rousseauiano del “buon selvaggio”, che è presentato come malvagio divoratore del proprio figlio, ma c’è insieme anche un giuoco sottile e acre: non la carne propria, la sua, ma quella del figliuolo:
SELVAGGIO: Che maraviglia? E la madre ancora, che già non debbe esser buona da fare altri figliuoli, penso di mangiarla presto.
MOMO: Come si mangia la gallina dopo mangiate le uova.
SELVAGGIO: E l’altre donne che io tengo, come sieno fatte inutili a partorire, le mangerò similmente. E questi miei schiavi che vedete, forse che li terrei vivi, se non fosse per avere di quando in quando de’ loro figliuoli, e mangiarli? Ma invecchiati che saranno, io me li mangerò anche loro a uno a uno, se io campo.[40]
Con un movimento che coinvolge subito altri motivi della profonda carica aggressiva e illuministica del Leopardi (è inevitabile il richiamo a Voltaire, che tante volte aveva insistito sulla ostilità tra popolazioni vicinissime), Prometeo domanda di quali schiavi si tratti:
Dimmi: cotesti schiavi sono della tua nazione medesima, o di qualche altra?
SELVAGGIO: D’un’altra.
PROMETEO: Molto lontana da qua?
SELVAGGIO: Lontanissima: tanto che tra le loro case e le nostre, ci correva un rigagnolo.[41]
A questo punto Prometeo, deluso dalla prima verifica della perfezione delle sue creature (tra l’altro avendo scorto una «cotal guardatura» da parte dei selvaggi assai poco incoraggiante, come se questi cominciassero a pensare di divorare anche i divini scesi sulla terra), se ne vola via insieme a Momo. Si allontanano e vanno nel continente piú vecchio, l’Asia, e lí scendono a terra
[...] presso ad Agra in un campo pieno d’infinito popolo, adunato intorno a una fossa colma di legne: sull’orlo della quale, da un lato, si vedevano alcuni con torchi accesi, in procinto di porle il fuoco; e da altro lato, sopra un palco, una donna giovane, coperta di vesti suntuosissime, e di ogni qualità di ornamenti barbarici, la quale danzando e vociferando, faceva segno di grandissima allegrezza. Prometeo vedendo questo, immaginava seco stesso una nuova Lucrezia o nuova Virginia, o qualche emulatrice delle figliuole di Eretteo, delle Ifigenie, de’ Codri, de’ Menecei, dei Curzi e dei Deci, che seguitando la fede di qualche oracolo, s’immolasse volontariamente per la sua patria.[42]
Prometeo è sempre disposto a seguire la logica della retorica, si entusiasma, crede si tratti di un sacrificio eroico, crede che la donna possa appartenere alla categoria dei personaggi eroici come Virginia (da Leopardi esaltata in poesia, nella canzone Nelle nozze della sorella Paolina).
Intendendo poi che la cagione del sacrificio della donna era la morte del marito, pensò che quella, poco dissimile da Alceste, volesse col prezzo di se medesima, ricomperare lo spirito di colui. Ma saputo che ella non s’induceva ad abbruciarsi se non perché questo si usava di fare dalle donne vedove della sua setta, e che aveva sempre portato odio al marito, e che era ubbriaca, e che il morto, in cambio di risuscitare, aveva a essere arso in quel medesimo fuoco; voltato subito il dosso a quello spettacolo, prese la via dell’Europa [...].[43]
Dopo questa seconda delusione dovuta all’imperfezione degli uomini e alle loro stolte usanze e credenze, Prometeo fa un ultimo tentativo (dopo che Momo ha tratto delle amare riflessioni su questa perfezione dell’uomo, investendo con una precisa critica l’ottimismo della Teodicea del Leibniz), ripromettendosi molto, di contro alle sperimentate usanze dei selvaggi, dalla condizione civile dell’Europa, e in particolare della civilissima Londra, su cui scendono:
[...] veduto gran moltitudine di gente concorrere alla porta di una casa privata, messisi tra la folla, entrarono nella casa; e trovarono sopra un letto un uomo disteso supino, che avea nella ritta una pistola; ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti. Erano nella stanza parecchie persone della casa, e alcuni giudici, i quali le interrogavano, mentre che un officiale scriveva.
E qui si inserisce di nuovo un rapido dialogo:
PROMETEO: Chi sono questi sciagurati?
UN FAMIGLIO: Il mio padrone e i figliuoli.
PROMETEO: Chi gli ha uccisi?
FAMIGLIO: Il padrone tutti e tre.
PROMETEO: Tu vuoi dire i figliuoli e se stesso?
FAMIGLIO: Appunto.
PROMETEO: Oh che è mai cotesto! Qualche grandissima sventura gli doveva essere accaduta.
FAMIGLIO: Nessuna, che io sappia.
PROMETEO: Ma forse era povero, o disprezzato da tutti, o sfortunato in amore, o in corte?
FAMIGLIO: Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo stimassero; di amore non se ne curava, e in corte aveva molto favore.
PROMETEO: Dunque come è caduto in questa disperazione?
FAMIGLIO: Per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto.
PROMETEO: E questi giudici che fanno?
FAMIGLIO: S’informano se il padrone era impazzito o no: che in caso non fosse impazzito, la sua roba ricade al pubblico per legge: e in verità non si potrà fare che non ricada.
PROMETEO: Ma, dimmi, non aveva nessun amico o parente, a cui potesse raccomandare questi fanciullini, in cambio d’ammazzarli?
FAMIGLIO: Sí aveva; e tra gli altri, uno che gli era molto intrinseco, al quale ha raccomandato il suo cane.[44]
Tutto viene denudato e crudamente smantellato: questi giudici compiono un’operazione gretta e misera, senz’altra preoccupazione; viene negata la stessa amicizia, alla quale può esser raccomandato solo il cane. È un caso estremo dell’imperfezione umana, di un uomo che non avendo nessuna causa d’immediata infelicità, si era soppresso per «tedio» della vita (la grande parola, tedio o noia, che viene a riportare in questa operetta i temi centrali e fondamentali: il senso della vita ridotta a esistenza secondo la distinzione leopardiana, che viene cosí proficuamente operando entro le Operette morali).
A questa operetta, che rappresenta la conclusione piú dura a cui questo filone delle Operette morali si sta avvicinando, segue il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, che ha al suo centro il tema della durata della vita: se essa meriti di essere lunga o viceversa se è meglio che sia breve, dato che la vita vale qualcosa solo se è intensissima e perciò breve.
Il tema recupera motivi precedenti (il senso della vita piena e intensa, del vigore) ma non rappresenta un ritorno indietro, una contraddizione con le posizioni che Leopardi veniva affermando, o una voce isolata (Fubini), una via di giustificazione positiva dell’esistenza (Sanesi)[45].
L’operetta porta invece a insistere sul tema dell’esistenza come noia, sul confronto fra quello che potrebbe essere la vita e quello che effettivamente è. Infatti ciò che il Metafisico dice (che la vita è un dover essere, concetto su cui tanto Leopardi aveva insistito nel periodo precedente) è un’ipotesi, alla cui luce meglio si rivela l’assurdità orrenda e terribile di quest’altra vita reale, puro “durare”, semplice “esistere”: tanto che l’operetta concluderà che non potendo esserci una vita piena, intensa, pienamente vissuta, «dalla vita alla morte non è divario». È la stessa approfondita conclusione del Dialogo di Malambruno e di Farfarello: «Il che se io credessi [dice il Metafisico], ti giuro che la morte mi spaventerebbe non poco. Ma in fine, la vita debb’esser viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio»[46].
Il dialogo è impostato con una serie di battute e risposte tra due personaggi: il Fisico è la voce di un uomo sostanzialmente comune, affezionato al “comunque vivere”, e d’altra parte è la voce dell’ottimista che crede al progresso, alle scoperte, tanto è vero che il dialogo inizia, felicemente, con una specie di urlo gioioso e sciocco del Fisico che ha fatto una grande invenzione e che riprende la parola di Archimede: «Eureca, eureca».
Il Metafisico (metafisico nel senso che ha saputo individuare i problemi essenziali e supremi, e che non si fa prendere piú dagli inganni del “comunque vivere”) contrapporrà subito la sua diversa tonalità di voce, cioè quella dell’uomo esperto, deluso, dicendo: «Che è? che hai trovato? FISICO: L’arte di vivere lungamente. METAFISICO: È cotesto libro che porti? FISICO: Qui la dichiaro: e per questa invenzione, se gli altri vivranno lungo tempo, io vivrò per lo meno in eterno; voglio dire che ne acquisterò gloria immortale». Si noti come il Leopardi è riuscito, in questo intreccio, a far avvertire i toni diversi delle due voci; quella del Fisico è spavalda, sicura, quella del Metafisico è malinconicamente ironica e satirica: «Fa una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi cotesto libro, sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente»[47].
Qui il giuoco è incentrato sulla stessa parola: l’uno aveva detto: «l’arte di vivere lungamente», l’altro replica: quando sarà trovata un’arte piú difficile, «l’arte di vivere felicemente». «FISICO: E in questo mezzo? [Il Fisico non capisce l’ironia amara del Metafisico] METAFISICO: In questo mezzo non sarà buono da nulla. Piú lo stimerei se contenesse l’arte di viver poco»[48]. È su questo tema che s’imposta una lunga parte del dialogo: poiché non si può vivere felicemente, è meglio vivere brevemente, quasi che nella brevità della vita ci possa esser una maggiore compendiosa pienezza di sensazioni.
Al Metafisico che produce queste prime ragioni, il Fisico risponde sempre secondo la sua diversa prospettiva: «Di grazia, lasciamo cotesta materia, che è troppo malinconica; e senza tante sottigliezze, rispondimi sinceramente: se l’uomo vivesse e potesse vivere in eterno; dico senza morire, e non dopo morto; credi tu che non gli piacesse? METAFISICO: A un presupposto favoloso risponderò con qualche favola»[49].
E Leopardi qui riporta molte favole antiche che insistono sempre sul fatto che il dono maggiore che gli dei possono fare agli uomini è quello di farli morire il piú rapidamente possibile.
Nell’ultima parte l’accento del Leopardi batte, piú ancora che sulla vita intensa su cui precedentemente aveva tanto insistito, sul senso di una esistenza diluita, con grandi e frequentissimi intervalli, tra poche sensazioni piú intense, vuoti di ogni affezione e azione viva: è cioè chiaramente delineato il tema centrale del tedio, dell’angoscia, della disperazione e desolazione esistenziale.
Ma lo sviluppo delle Operette trova una possibilità di piú aperta e alta drammaticità in quel Dialogo della Natura e di un Islandese che fu scritto tra il 21 e il 30 maggio 1824, ma che Leopardi, quando pubblicò le Operette in volume nel ’27, pospose al Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, composto invece successivamente. Si è cercato di spiegare questa trasposizione con il fatto che il Leopardi avrebbe voluto mettere il Dialogo della Natura e di un Islandese piú al centro delle Operette, al culmine di questa importante zona, pensando anche che lo stesso Leopardi nello Zibaldone, già nel ’24, e poi nel ’25 e ancora nel ’26, piú volte si riferirà a questa operetta come a una tappa essenziale e a una chiave di volta (come essa è effettivamente) del suo pensiero.
L’operetta, infatti, riprende chiaramente la protesta e l’accusa del Bruto minore e dell’Ultimo canto di Saffo, ma le porta a una maturazione piú sicura e piú intensa raccogliendo inoltre l’attrito della problematica leopardiana quale si era venuto muovendo e consolidando entro le operette precedenti e nello Zibaldone del ’23.
Al centro di essa sta un problema fondamentale per Leopardi: l’uomo è posto in un netto e risoluto contrasto con la natura, che viene totalmente perdendo i suoi caratteri benefici di “madre” e perde insieme quel carattere piú alacre e poetico che il poeta prima aveva considerato come fonte del vitale, del vivace, dell’energico. La natura assume un volto implacabile, chiuso, ostile all’uomo, essendo sua unica occupazione il mantenimento della legge fondamentale dell’universo (la distruzione e trasformazione continua della materia), che comporta per i viventi una legge di sofferenze e di morte.
Qui il Leopardi ha rotto tutti gli indugi precedenti, anche quei tentativi di giustificazione della natura delle cui imperfezioni pure si era accorto nello Zibaldone, ma che configurava ancora in forma di inconvenienti necessari della natura[50]. Se precedentemente il Leopardi aveva visto che la legge della natura comportava il sacrificio, la morte dei singoli esseri viventi, e tuttavia considerava ciò come un aspetto non solo inevitabile ma in qualche modo riconducibile alla pienezza generale della vita della natura, adesso egli scarta risolutamente questi elementi non piú coerenti alla nuova pressione drammatica dell’idea-immagine, formidabile e tremenda, di una natura nemica di tutti gli esseri viventi, ma particolarmente (poiché è un uomo che parla) anzitutto degli uomini.
Di fronte a questa natura, l’uomo tende a «snaturarsi»: un’espressione che Leopardi adoperava nel periodo precedente a riprova della corruzione dell’uomo per opera della ragione che lo snaturava appunto, che l’allontanava dalla benefica sorgente di vita, mentre qui l’uomo tende a fuggire dalla natura e a contrapporsi a essa, scoprendo (piú chiaramente di quanto sia avvenuto finora nelle Operette morali e nello Zibaldone) il contrasto che c’è tra la vita, che dovrebbe comportare la felicità e il piacere, e l’esistenza e il perdurare della specie di cui soltanto si occupa e preoccupa la natura. La natura viene quindi messa dalla parte dell’esistenza e non della vita.
Il Dialogo della Natura e di un Islandese approfondisce dunque altissimi problemi e fa affiorare conclusioni o avvii di conclusioni molto importanti sul rapporto tra uomini e natura. Da un iniziale giudizio negativo sugli uomini essi, dopo un’esperienza piú profonda, appariranno molto meno crudeli verso i loro simili di quanto non sia la persecuzione implacabile della natura, che non manca mai di far «patire» (la parola chiave di questo dialogo) l’uomo.
Gli uomini, alla luce di questo scandaglio piú profondo, appariranno meno crudeli della natura e in qualche modo addirittura incolpevoli, soggetti a una persecuzione e a una sofferenza che essi subiscono senza accettarla, che “patiscono” contro la loro volontà. La malvagità umana viene cioè prospettata come naturale, come dipendente dalla natura, non dalla volontà: è un motivo con implicazioni fondamentali per il successivo svolgimento leopardiano, che ha consonanze con le posizioni espresse dal Voltaire nello Zadig («gli uomini sono alla fine naturalmente cattivi») e confermate nel Candide, per cui la responsabilità ultima della malvagità umana risale alla natura e non all’uomo.
Questa operetta ha un tono profondamente drammatico, di cui si accorse (pur nella generale diffidenza verso le Operette morali) il De Sanctis quando scrisse: «Pauroso e altamente tragico è il Dialogo della Natura e di un Islandese [...]. L’impassibilità della Natura, che noi sogliamo chiamare madre, spaventa qualunque abbia cuore d’uomo. Quel sentimento che c’induce al culto e alla preghiera, è qui non messo in giuoco, ma strozzato dalla verità. Sotto l’Islandese intravvediamo tutto il genere umano, alle cui sorti rimane indifferente la natura e il mondo [...]. E ci par di vedere fiele in quella tranquillità [...]. Una certa misantropia balenava in quell’anima, nata all’amore, in alcuni cattivi momenti, e gli compariva sulla faccia il verde di una ironia amara, che voleva rendere piacevole, come si vede nella fine del dialogo»[51].
Lasciando per ora da parte quest’ultimo inaccettabile giudizio, importa rilevare che il De Sanctis ha ben avvertito il fondo addirittura «Pauroso e altamente tragico» di questo dialogo e ha anche sentito che qui si metteva in causa, anzi “si strozzava”, quel sentimento fondamentale dell’uomo che chiama «madre» la natura.
L’operetta dunque accentua molto lo sviluppo del pensiero leopardiano, della sua battaglia antiottimistica, antispiritualistica e nettamente antireligiosa, con chiari raccordi con posizioni del materialismo dell’ultimo Settecento. E va subito sottolineato che essa è uno dei capolavori artistici delle Operette proprio perché Leopardi vi esercita non la sua grandezza di stilista “puro”, ma perché raccorda internamente le soluzioni artistiche alla grandezza e alla profondità dei temi ideologici trattati.
Qui il Leopardi enuncia interamente la legge fondamentale del materialismo e meccanicismo dell’ultimo Settecento (per cui la natura non è che un perpetuo circuito di produzione e distruzione della materia teso alla conservazione della stessa materia) quale egli poteva riprenderla soprattutto dai libri del D’Holbach e di quegli altri filosofi materialisti a cui farà chiaro accenno nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, parlando di alcuni filosofi che «Quaranta o cinquant’anni addietro [...] solevano mormorare della specie umana»[52]. Il Leopardi riprende dunque la legge materialistica nelle sue conseguenze piú aggressive, antiprovvidenzialistiche, sostanzialmente anti-religiose[53].
Insieme egli riprende dal Settecento il motivo sensistico, perché qui l’uomo, l’Islandese (che non rappresenta una situazione di eccezione, ma la condizione umana generale, di tutti i viventi, di tutti i «senzienti»), sarà avvertito nella sua qualità di essere senziente: il suo patire è un patire fisico. E riprende il sensismo in chiave profondamente pessimistica, come era stato in parte anticipato, pur entro notevoli differenze, da Pietro Verri che aveva elaborato soprattutto un sensismo dolente (maggiore la somma dei mali rispetto a quella dei beni, secondo il problema aperto in Francia dal Maupertuis in direzione di un pessimismo virile ed energetico).
Altro elemento in questa operetta è la prospettiva piú tipicamente illuministica, cioè l’uso aggressivo della ragione. È chiaro infatti che l’Islandese procede nella diagnosi con la forza della sua ragione, cioè con un’arma razionale che denuda la verità da tutti gli aspetti superflui, da tutti i vari ornamenti e orpelli, da tutti i miti.
Il legame con l’illuminismo è dunque complesso e profondo. D’altra parte l’illuminismo, e Voltaire in particolare, offrivano a Leopardi non solo temi ideologici fondamentali, ma anche stimoli alla costruzione della sua prosa[54]. Soprattutto nel ritmo di peripezie, di disgrazie che viene come a soffocare l’Islandese, man mano che le racconta, si risente il ritmo di quella tecnica accumulativa che è tipica del Voltaire di Candide e che conduce poi al fondo delle sue amare e risolute sentenze sull’uomo, sulle sue sorti, sulla natura: si pensi al racconto che una vecchia (figlia immaginaria di un papa) fa delle sue sventure a Candido e a Cunegonda.
Questo rapporto coll’illuminismo (i cui stimoli Leopardi ha rimodellato originalmente sia per le sue doti naturali sia per la stessa distanza storica tra lui e Voltaire dopo l’esperienza preromantica) va dunque rilevato perché serve a dare alle Operette morali un significato storico tanto piú forte e a spiegar meglio anche certe qualità della prosa e dell’arte.
Tornando al giudizio desanctisiano sull’“acidità” e la «misantropia» di quegli “scherzi” che Leopardi si sarebbe sforzato invano di rendere piacevoli, va notato che in realtà anche quel tipo di ironia e di “scherzi” che potevano apparire nella zona delle prime operette piú libreschi, devianti dalla linea piú intensa del contesto, qui sono perfettamente coerenti coi problemi agitati e hanno un fondo tutt’altro che volutamente piacevole o divagatorio, ma anzi sempre fortemente drammatico.
In apertura, all’Islandese che dice: «vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa», la Natura risponde: «Cosí fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi»[55]. Sarebbe un errore considerare questa battuta come un inserto “piacevole”: è evidente che da subito la natura veniva già, e con un significato gremito di risonanze, a enunciare con un’immagine pertinente al problema centrale la sua legge fondamentale, e non a introdurre un puro scherzo macabro, tanto che la legge della natura si potrebbe immaginosamente chiamare “la legge dello scoiattolo e del serpente a sonaglio”: a indicare la sorte inevitabile dell’animale piccolo di fronte a quello grosso, cioè di tutti gli esseri viventi di fronte alla morte e all’opera di distruzione della natura.
Cosí anche il finale, che può essere apparso al De Sanctis o ad altri puramente capriccioso, estroso, in realtà (se si faccia una lettura che tenga conto di tutto lo sviluppo dell’operetta) è la traduzione piú immaginosa e dolorosamente satirica di quella risposta che la natura non dà esplicitamente. Alla Natura, che aveva ribadito la sua legge fondamentale per cui nessuna cosa può essere libera dal patimento, l’Islandese porta la sua accusa fino ai termini della piú ansiosa e drammatica domanda (che ci fa pensare già alle domande del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia), alla quale la Natura non risponde direttamente, ma con l’azione:
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, cosí rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.[56]
La Natura dà una risposta di fatto, agendo attraverso i due leoni sfiniti che divorano, per legge naturale, l’Islandese e che poco dopo moriranno di fame; anch’essi sono esseri senzienti e sottoposti al patire e destinati a una identica morte. Non si tratta quindi di un diversivo scherzoso e libresco, ma di una traduzione immaginosa e coerente della legge dell’universo.
Allo stesso modo anche l’altra soluzione prospettata, cosí ricca di estro, secondo cui un fierissimo vento si sarebbe levato sul deserto e avrebbe steso a terra l’Islandese e sopra gli avrebbe edificato un monumento (un «superbissimo mausoleo», con un’allusione ironica alla retorica dei mausolei), indica ancora che la Natura agisce secondo le sue leggi, casuali anche se necessarie, che ignorano la sensibilità degli esseri viventi, il loro dramma, e che possono in qualche modo livellare con la sabbia qualsiasi esistenza, come l’acqua di un fiume livella ugualmente un sasso e il volto del bimbo che vi è caduto.
È una risposta tremenda e tutt’altro che un facile giuoco; e c’è in piú la sigla estrosa, capricciosa, altamente musicale dello scherzo sull’inganno dei viaggiatori che vanno a scoprire le antichissime mummie e scambiano l’Islandese per una di queste, facendone un pezzo di gran valore per un museo della civilissima Europa.
Infine va criticato il giudizio dato da Giovanni Getto sul significato poetico dell’immagine di statua femminile, con cui la Natura si presenta all’Islandese all’inizio dell’operetta. Scrive il Getto: «In questo volto bello e terribile, dagli occhi e i capelli nerissimi [...] si ritrovano i tratti caratteristici di quel tipo femminile diffuso in tutta una zona della letteratura romantica, quella, per intenderci, esplorata da Mario Praz in un capitolo del suo libro La carne la morte e il diavolo, capitolo significativamente intitolato, sulla scorta di Keats, La belle dame sans merci»[57].
Si assommano qui due errori: da una parte, il gusto frammentario del critico che isola questa immagine, non avvertendo che essa ha una grande potenza proprio perché Leopardi l’adopera in relazione alla tremenda tensione di problemi sui rapporti fra uomo e natura che viene sviluppando, e in cui la natura assume questo aspetto prima statuario, poi di donna ricca di energia, ma dal volto «tra bello e terribile»; e, d’altra parte, il critico, volto alla ricerca e alla scelta dell’immagine suggestiva, attraverso il riferimento a un tipo di romanticismo estetizzante, quale fu certamente quello di Keats, attribuisce all’immagine del Leopardi (lontanissimo da ogni gusto estetizzante e predecadente) un significato di meraviglia voluttuoso ed enigmatico. In realtà il Leopardi ha voluto esprimere, con una forza tanto piú “classica” e tanto piú sua, la terribilità della natura:
Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona Speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi piú da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata cosí un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse.[58]
È una pagina estremamente potente, che non può ridursi alla felicità o alla suggestione di una immagine. Sviluppa infatti problemi profondi, la cui stessa pressione sollecita la fantasia leopardiana a questa grande e nuova immagine della natura, il cui fascino è nel volto «mezzo tra bello e terribile», parola su cui si insiste e alla luce della quale la stessa bellezza naturale viene stravolta, proprio perché la natura apparirà al Leopardi la nemica e non la madre degli esseri senzienti. Poi iniziano le battute del dialogo, in cui la Natura ha una sua voce ben individuata e costante, anche se i suoi interventi sono limitati e assai brevi; una voce monotona, implacabile e fredda, che enuncia leggi di carattere meccanico e disumano mentre quella dell’Islandese è modulata con maggiore ricchezza, è umana, piena di sfumature, all’inizio quasi intimidita, per poi farsi sempre piú aggressiva e sicura:
NATURA: Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?
ISLANDESE: Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.
NATURA: Cosí fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
ISLANDESE: La Natura?
NATURA: Non altri.
ISLANDESE: Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.
NATURA: Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra piú che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?[59]
Da questo punto inizia il lungo discorso dell’Islandese, la cui voce viene acquistando a poco a poco una consistenza e un’audacia che va crescendo, dalle constatazioni fino ai toni dell’accusa e delle domande piú inquietanti e terribili.
Il lungo discorso dell’Islandese va visto nella sua progressiva animazione ed è tutt’altro che freddo, intellettualistico e puramente concettuale: le idee, le constatazioni dell’Islandese si basano, infatti, sull’esperienza “in crescendo” di un uomo medio e comune, che si avvale di una ragione istintiva e immediata, che non è un’anima «grande» vicina al Leopardi, come avverrà invece all’intellettuale Tasso del Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare.
Il pensiero, pur cosí profondo e premente, viene continuamente commutandosi in una forma di sentimento, di atteggiamento del personaggio o della sua voce, da cui si sviluppano anche meglio gli accenni di fantasia, che non sono mai puri spunti pittoreschi, ma che vogliono organicamente e coerentemente tradurre nel paesaggio stesso la fisicità di quell’esperienza che tanto premeva al Leopardi. Il paesaggio del dialogo non è, come a volte si è detto, una “cornice immaginosa”, ma è l’estrinsecazione e l’espressione della legge implacabile della natura, della sua persecuzione contro gli esseri senzienti e in primo luogo gli uomini. Il suo carattere tetro, squallido, oppressivo, apportatore di mali, è strettamente legato ai problemi e alle posizioni ideologiche del testo:
ISLANDESE: Tu dei sapere che io fino nella prima gioventú, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini [...] Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti.[60]
L’Islandese, dopo una prima esperienza, ha fatto una constatazione facile e comune: la vita è vana e gli uomini sono stolti in quanto perseguono dei piaceri particolari e vani; per questo egli ha scelto l’astensione. Non cerca la felicità, cerca solamente di non patire. Il problema è impostato dal Leopardi (che qui, volendo delineare un’esperienza umana di tipo comune, si vieta la richiesta ardente del desiderio della felicità come in altri dialoghi) in modo da far risultare la malvagità della natura, che non solo non dà felicità, ma non permette in nessun caso di fuggire il «patimento». L’Islandese prosegue:
Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio.[61]
Scegliendo la solitudine, l’Islandese conduce il discorso al di là del tema della malvagità umana. Nonostante la volontaria rinuncia alla ricerca della felicità, infatti, l’uomo è sottoposto al patimento, configurato come fisico e immediato frutto dell’ostilità della natura:
Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. [...] Tal volta io mi sono sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria.[62]
Tutte queste immagini dipendono sempre dalla legge della persecuzione, che la natura esercita sugli uomini, sicché le stesse cose inanimate appaiono stranamente animate da siffatto spirito di persecuzione. Il discorso prosegue: «Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa»[63]. Si dispiega cosí il cumulo delle infermità, il continuo incalzare dei mali, delle persecuzioni sugli uomini; e non solo «in ogni dove» ma in ogni tempo e per tutti gli uomini, secondo la tecnica accumulativa dei mali che domina l’operetta e il discorso, nient’affatto descrittivo ma ricco di una fortissima animazione, di un ritmo stringente e ossessivo che culmina nella conclusione-accusa:
In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue [...].[64]
È l’accusa diretta che il Leopardi muove alla natura, dopo avere implacabilmente presentato tutte le prove concrete del patimento alle quali gli uomini sono da essa sottoposti.
Non solo la natura diventa la «carnefice» della propria famiglia e dei suoi figli[65], ma è addirittura (con l’ultima altissima frase, la punta lirico-drammatica di questa parte dell’operetta) accusata non tanto di portare agli uomini la morte (che non è piú il tema dominante, perché la morte è almeno la cessazione di queste pene, di questi dolori), ma quel tremendo male della vecchiaia su cui Leopardi ha tanto indagato e meditato[66]. È l’ultima parte, altamente poetica, di questo discorso dell’Islandese:
E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono.[67]
Tutte le parole sono assolute e perentorie, perché indicano qualcosa che non ha eccezione, ma che è per legge: la legge del patimento, del male, della vecchiaia che gli uomini prevedono «dal quinto [...] lustro in là», fin dalla giovinezza, e che quindi (come già era stato intuito nell’Ultimo canto di Saffo) riverbera la sua ombra su tutta la vita.
Si noti la forza di queste parole che vengono a cadere ossessive sull’uomo e sulla sua sorte: «un tristissimo declinare e perdere» e poi «scadere».
L’uomo è, d’altra parte, «senza [...] colpa», cioè vittima innocente. L’ultimo Leopardi considererà gli uomini colpevoli in quanto aderiscono a inganni, a miti sciocchi e superbi, come quelli che ora combatte nelle Operette. Ma piú profondamente gli uomini di fronte alla natura sono “i senza colpa”[68]. E cosí la vecchiaia cade su di essi non perché l’abbiano meritata, ma perché è loro destinata per legge implacabile.
A questo lungo discorso la Natura oppone, con alto effetto poetico, una risposta completamente disumanizzata, impossibilitata a entrare in rapporto con le domande umane: la sua, infatti, non è volontaria crudeltà verso la sorte degli esseri senzienti, ma necessaria ottemperanza alla legge meccanicistica dell’universo. Di qui il tono freddo, implacabile, inflessibile e metodico della sua voce:
Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’ avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.[69]
A questo punto l’Islandese ripropone i suoi ardenti, ansiosi problemi, tentando di riagganciare ancora la Natura che sfugge alle sue accuse, di riportarla ai suoi doveri di responsabilità verso gli uomini. Ma essa è al di fuori di queste preoccupazioni, è e si sente irresponsabile del bene e del male, è estranea a questo problema morale che non la riguarda. Da questa incapacità di comunicazione, di piano comune, nasce molta della poesia di questa operetta. In essa lo scrittore riprende anche l’uso di certe immagini che era stato fatto specialmente da Voltaire, come quella del mondo paragonato a una casa in cui gli uomini sono ospiti. Leopardi immagina un signore che inviti un ospite nel suo palazzo, nella sua villa, per poi trascurarlo e lasciarlo nella situazione piú penosa; e che poi, di fronte alle lamentele dell’ospite, risponda dicendo che non ha mica fatto la casa per lui. L’ospite potrà allora replicare: se non l’hai fatta per me, perché mi hai invitato qui dentro, perché mi ci hai quasi condotto a forza? È la domanda che l’Islandese rivolge direttamente alla Natura: se la Natura non ha fatto il mondo per gli uomini, perché allora ce li ha chiamati? Perché li ha voluti lí dentro involontari, senza colpa? Perché ha compiuto questa scelleraggine suprema?
L’Islandese, dopo questo lungo e ossessionante paragone, dice infatti:
So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.[70]
Queste domande cosí ansiose e supreme sono chiuse dalla clausola finale in cui l’Islandese estende la sua situazione a quella di tutti gli altri uomini e addirittura di ogni creatura vivente e senziente. Seguirà l’ultima risposta della Natura, che si arroccherà in una estrema difesa della sua impassibilità, del suo non-dovere di responsabilità rispetto agli uomini, enunciando semplicemente la nuda e cruda legge meccanicistica e materialistica:
Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.[71]
L’unico punto di contatto tra l’Islandese e la Natura è appunto questa constatazione: nessuna cosa è «libera da patimento».
L’ultima domanda dell’Islandese (a cui la Natura non risponde piú con parole ma con la sua azione distruttrice) cerca una risposta a questo suo dubbio: ma poiché è cosí, a chi giova? questa storia di distruzione, di persecuzione, di patimenti, a chi giova? Sono le domande che torneranno poi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, di cui l’operetta viene anticipando i temi, già realizzandoli nella prospettiva piú nuda e severa:
Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?[72]
In questa grande operetta il Leopardi giunge cosí al centro di alcuni suoi fondamentali problemi: non solo, come si dice, alla accusa contro la natura e alla sua identificazione come nemica degli uomini, ma soprattutto all’individuazione e alla non-accettazione di tutto un ordine delle cose giudicato sbagliato, assurdo, mostruoso. È questa non-accettazione della necessità dell’ordine delle cose che distingue il Leopardi dal Foscolo, nel quale a volte c’è quasi un senso religioso della legge meccanicistica dell’universo. È una posizione che poteva riaprire prospettive di religiosità atea per una trasformazione totale, fideistica e volontaristica della realtà come è, ma che nel Leopardi non dà affatto questi esiti perché piú profondamente evita ogni slancio idealistico, ogni evasione per quanto alta dalle conclusioni di un pessimismo radicale, totale, coraggiosissimo, base profonda per lui di ogni ulteriore e piú matura proposta di solidarietà umana.
Il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, scritto, come si è accennato, dopo il Dialogo della Natura e di un Islandese, dal 1° al 10 giugno 1824, è un altro dei momenti alti delle Operette morali, cosí come lo era il precedente, ma rispetto a esso ha una prospettiva diversa, meno aggressiva e stringente. Mentre infatti il Dialogo della Natura e di un Islandese è tutto tenuto su di un ritmo crescente e incalzante, basato sulla tensione piú strenua, quest’altro dialogo ha indubbiamente una misura leggermente spostata, come piú varia e piú apertamente fantastica. Esso è legato anche a una situazione singolare, fra piú diretta esperienza autobiografica e rievocazione di quel grande poeta, il Tasso, che il Leopardi (si ricordi Ad Angelo Mai e l’accenno contenuto nella lettera romana sulla visita al sepolcro del Tasso) considerava come una specie di precursore delle sue posizioni e della sua poesia.
Certamente il Leopardi si è servito delle biografie tassesche e di quella del Manso, in particolare per ciò che riguarda la prigionia del Tasso a Sant’Anna, ma si è servito anche, per l’espediente del Genio familiare, di un dialogo del Tasso stesso, Il Messaggiero: ha cioè utilizzato certi elementi dello stesso grande scrittore che qui introduce come personaggio, e che è Tasso e Leopardi insieme, un Tasso fortemente arricchito delle piú tipiche esperienze leopardiane.
Il dialogo si svolge (ed è questa pure una novità) in forma quasi di colloquio interiore, con uno sdoppiamento interno fra il Tasso e il suo Genio, che è una specie di deuteragonista rappresentante una piú lucida consapevolezza.
Se il dialogo si configura secondo un ritmo piú vario e vago, piú fantastico, meno stringente, che vuol rendere un tono di dormiveglia, tra lucidità e fantasticheria, altamente malinconico (che si avvicina alla suggestiva definizione di «alta musica malinconica» data dal Montani delle Operette morali), tuttavia non è un’opera priva della pressione di problemi consistenti e importanti.
Anzi il Leopardi, in questa operetta, giungerà ad alcune enunciazioni ben pertinenti alle posizioni che sta svolgendo e consolidando artisticamente nelle Operette morali. Basti pensare che qui tocca temi fondamentali: «Che cosa è il vero?», «Che cosa è il piacere?», «Che cosa è la noia?».
Quest’ultimo tema è il piú importante contributo di quest’operetta, anche in sede di posizioni filosofiche raggiunte dal Leopardi in questo periodo: cioè il concetto della noia che sgorga, entro la distinzione tra vita ed esistenza, dai momenti della non-vita, dal sentimento puro dell’esistenza e dal desiderio puro della felicità. Per questo concetto il Leopardi, all’interno delle Operette morali (e naturalmente con alcuni presupposti già dello Zibaldone), ha delle consonanze e in qualche modo si avvicina a certi temi dell’esistenzialismo kierkegaardiano. D’altra parte, per quanto riguarda la costruzione e il taglio dell’operetta, la nuova impostazione, legata ai temi della noia, del piacere, del sogno e del vero, conduce Leopardi a impostare il dialogo in forme diverse (anche con una capacità di movimento all’interno di certe fondamentali direzioni delle Operette), che sconsigliano formule troppo risolute e livellanti per indicare piuttosto la ricchezza che c’è in questo libro. Il dialogo comincia infatti in una forma conversevole e spigliata con brevi battute fra il Tasso e il suo Genio che gli compare dopo la cena:
GENIO: Come stai Torquato?
TASSO: Ben sai come si può stare in una prigione, e dentro ai guai fino al collo.
GENIO: Via, ma dopo cenato non è tempo da dolersene. Fa buon animo, e ridiamone insieme.
TASSO: Ci son poco atto. Ma la tua presenza e le tue parole sempre mi consolano. Siedimi qui accanto.
GENIO: Che io segga? La non è già cosa facile a uno spirito. Ma ecco: fa conto ch’io sto seduto.[73]
Dopo queste brevi frasi di apertura, che vogliono situare il dialogo in una situazione colloquiale, in cui bene si inseriscono le battute piú ironiche (come quella dello spirito che non può sedersi), cominciano a sgorgare i temi di fondo, che hanno una loro intima coerenza ma, come si diceva sopra, coniugata a una forma piú varia e fantastica, legata a uno stato tra fantasticheria e lucida ebbrezza:
TASSO: Oh potess’io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido di gioia, che dalla cima del capo mi si stende fino all’ultima punta de’ piedi; e non resta in me nervo né vena che non sia scossa. Talora, pensando a lei, mi si ravvivano nell’animo certe immagini e certi affetti, tali, che per quel poco tempo, mi pare di essere ancora quello stesso Torquato che fui prima di aver fatto esperienza delle sciagure e degli uomini, e che ora io piango tante volte per morto. In vero, io direi che l’uso del mondo, e l’esercizio de’ patimenti, sogliono come profondare e sopire dentro a ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di tratto in tratto si desta per poco spazio, ma tanto piú di rado quanto è il progresso degli anni; sempre piú poi si ritira verso il nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima; finché durando ancora la nostra vita, esso muore.[74]
Di questa operetta è tipico anche un procedimento piú indiretto e suggestivo, a intreccio: i temi vengono annunciati e poi svolti, l’uno intrecciandosi magari con il calare di quello precedente, in una disposizione piú mossa e libera. Cosí il tema dell’amore (tra l’altro legato alle immagini romantiche del Tasso, che il Leopardi interamente accettava come lo sfortunato amante della principessa di Este) si intreccia qui con la piú profonda idea del logoramento della vita (che in certo modo riprospetta il tema dello scadere, del declinare, che c’era già nel dialogo precedente) visto, in maniera fortemente poetica, come un lento seppellirsi e spengersi, entro l’uomo maturo e deluso in cui ogni tanto riaffiora la scintilla vitale dell’amore.
Il Genio interviene quasi interrompendo questa prima presa di coscienza da parte del Tasso, per proporre il tema del vero e del sogno che guiderà la prima parte dell’operetta: «Quale delle due cose stimi che sia piú dolce: vedere la donna amata, o pensarne? TASSO: Non so. Certo che quando mi era presente ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea»[75]. Al Genio che dice che cosí è per tutte le donne che da lontano sembrano piú affascinanti di quello che non sembrino da vicino, il Tasso consentirà, accettando l’idea che sostanzialmente la donna è piú bella nel ricordo o nel sogno (parte del tema piú profondo della canzone Alla sua Donna) che nella realtà.
Ma quando il Genio dirà che gliela condurrà davanti in sogno sicché egli potrà ricordarsene per tutto il giorno, il Tasso soggiunge: «Gran conforto: un sogno in cambio del vero. GENIO: Che cosa è il vero?»[76].
Dopo il preambolo sull’amore e sul logoramento della vita, si svolge il denso problema del vero e del sogno e dell’impossibilità di distinguere la verità dal sogno in cui l’uomo sostanzialmente vive, perché egli non può mai avere realmente l’unica cosa che aspetterebbe dalla realtà, dal vero, cioè il piacere. A questo punto si inserisce il nuovo tema («Che cosa è il piacere») del quale il Genio fa un’esposizione poetica e intensa:
GENIO: Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto e non un sentimento. [...] Però chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.
TASSO: Non possono gli uomini credere mai di godere presentemente?
GENIO: Sempre che credessero cotesto, godrebbero in fatti. Ma narrami tu se in alcun istante della tua vita, ti ricordi aver detto con piena sincerità ed opinione: io godo. Ben tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente.
TASSO: Che è quanto dire è sempre nulla.
GENIO: Cosí pare.
TASSO: Anche nei sogni.
GENIO: Propriamente parlando.
TASSO: E tuttavia l’obbietto e l’intento della vita nostra, non pure essenziale ma unico, è il piacere stesso; intendendo per piacere la felicità; che debbe in effetto esser piacere; da qualunque cosa ella abbia a procedere.[77]
Il Leopardi, svolgendo il concetto che il sogno è spesso un nulla poiché non si può neppure «credere mai di godere presentemente», essendo il piacere un ricordo molto insincero del passato o una vana speranza di futuro, giunge alla conclusione della vanità, della nullità, della miseria dello stato umano.
Il «Forse» del Genio suscita la protesta sdegnata e appassionata del Tasso: «Io non ci veggo forse. Ma dunque perché viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo di vivere?»[78]. E poiché su questo «perché» non si trova risposta, il dialogo passa, dopo brevi battute, al suo ultimo grande tema: la noia.
Qui la definizione di fatto è data dal Tasso stesso sulla base della sua umana esperienza, anche se essa è poi integrata e completata dal Genio che ne spiega la natura esistenziale e comune a tutti gli uomini riprendendo prima in forma piú sottile il paragone immaginoso del Tasso (noia-aria) e poi ricavandone il significato filosofico in uno svolgimento fantastico-speculativo di eccezionale densità e trasparenza:
GENIO: Che cosa è la noia?
TASSO: Qui l’esperienza non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Cosí tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vòto alcuno; cosí nella vita nostra non si dà vòto; se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto.
GENIO: E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e trasparente; perciò come l’aria in questi, cosí la noia penetra in quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall’una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell’altra. E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini.[79]
Contro la noia non c’è rimedio (tranne «Il sonno, l’oppio, e il dolore»), e il Tasso (che non accetta questi rimedi proposti dal Genio in forma che a lui sembra paradossale) vagheggia invece «la varietà delle azioni, delle occupazioni e dei sentimenti» di contro alla sua condizione di prigioniero nuovamente rappresentata (in spaventosa coincidenza con certe dichiarazioni epistolari di Giacomo, anche lui prigioniero della prigione di Recanati e della noia) da una mirabile descrizione, lucida e fantastica, ritmata sull’inumano scorrere di un tempo senza vita, in crudeli particolari di monotonia, di oggetti inutili e paurosamente fissati nella loro disumanità:
Laddove in questa prigionia, separato dal commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per passatempo i tocchi dell’oriuolo, annoverare i correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi scemi in alcuna parte il carico della noia.[80]
A questo punto, il Genio ritiene di dover alleggerire questa situazione spaventosa (una vita non vita, una nuda esistenza carica solo di noia) con il suggerimento di cercar conforto nell’assuefazione e nella stessa solitudine che, togliendo «dalla vita stessa», ricrea lentamente una certa disposizione alle illusioni e alle speranze, riporta quasi all’epoca inesperta della gioventú.
Conforto misero ed espresso con voce delusa e impersuasa, se alla fine il Genio (annunciando al Tasso il bel sogno che gli ha promesso) concluderà ribadendo la vanità della vita umana, la noia e l’inutilità di ogni condizione dell’uomo, la “beatitudine”, al massimo, di momenti illusorii meno penosi perché piú distratti dal sentimento della pena e dal peso dell’esistenza:
GENIO: Io ti lascio; che veggo che il sonno ti viene entrando; e me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso. Cosí, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al mondo se ne può avere, e l’unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi. [...]
TASSO: [...] La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza: ma questa per la piú parte del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né stelle; mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare.
GENIO: Ancora non l’hai conosciuto? In qualche liquore generoso.[81]
Il Genio familiare risponde con questa ultima battuta, al solito cosí originale nell’impasto d’ironia e d’amarezza, rivelando un altro degli aspetti della vanità della vita: anche i sogni piú alti, i colloqui interiori, le idee sublimi, sono provocati da uno stato di lieve e lucida ebbrezza causata da un liquore generoso, e quindi hanno radice nella materialità, nella fisicità stessa dell’uomo, tutt’altro che concepito come anima destinata al cielo.
Dal 14 al 24 giugno 1824 Leopardi scrisse il Dialogo di Timandro e di Eleandro, che egli stesso, in una lettera del 16 giugno 1826 allo Stella, disse di considerare come «una specie di prefazione, ed un’apologia» delle Operette «contro i filosofi moderni»[82].
Questa dichiarazione è assai importante per varie ragioni. Intanto ci indica il posto particolare di questo dialogo entro le Operette. Il Leopardi cioè, a questo punto, ha sentito il bisogno di riconsiderare il lavoro già svolto, di prenderne coscienza, di fare un esame delle sue posizioni e delle sue intenzioni. Questo spiega l’ordine in cui fu posto dall’autore nell’edizione del ’27, cioè come conclusione del libro, quasi a sottolineare la sua funzione di chiave di lettura delle Operette.
In secondo luogo, e soprattutto, ci chiarisce aspetti importanti delle intenzioni e delle posizioni delle Operette che, come abbiamo detto piú volte, vogliono essere una battaglia contro lo spiritualismo della Restaurazione e un’apologia e una ripresa polemica dell’illuminismo e del materialismo di quei filosofi settecenteschi che «Quaranta o cinquant’anni addietro [...] solevano mormorare della specie umana»: cioè Voltaire (anche se non materialista), D’Holbach, Helvétius fra gli altri. Anzi, l’espressione usata per essi («solevano mormorare») fa pensare che il Leopardi intendesse non solo riprendere la loro battaglia materialistica ma, quasi considerandola insufficiente, accentuarla e renderla ancor piú aggressiva e radicale, come avviene di fatto proprio con la battaglia antiprovvidenzialistica.
Infine questa dichiarazione suona come risposta di implicita polemica alle sollecitazioni che da piú parti gli venivano (anche dall’ambiente familiare) a prendere posizione contro il materialismo settecentesco, e a mettere la sua penna al servizio di quella ripresa spiritualistica, e delle sue forme religiose e filosofiche (il rilancio, ben intenzionale, di Platone in chiave antimaterialistica), di cui viceversa il Leopardi era il piú saldo avversario in Italia. Si possono ricordare, da questo punto di vista, le lettere dello zio Carlo Antici del 1825, che chiariscono ancora come Leopardi non fosse affatto compreso dalle stesse persone a lui piú legate d’affetto e tutt’altro che incolte. In queste lettere, l’Antici sollecitava il Leopardi a fare oggetto della sua prosa e della sua poesia gli argomenti dello spiritualismo e della religione, anche per ragioni pratiche molto consistenti[83]. Per avere una sistemazione fuori di Recanati e soprattutto nello Stato Pontificio, infatti, Giacomo avrebbe fatto bene ad accettare questa tematica cosí diversa da quella su cui effettivamente si esercitava (come diceva, in una lettera riportata dall’Antici stesso, il Cardinale Della Somaglia: se questo suddito cantasse argomenti religiosi sarebbe molto piú facile dargli una sistemazione pratica nel nostro Stato)[84].
D’altra parte, se nel Dialogo di Timandro e di Eleandro si evidenzia questa posizione ideologico-culturale cosí importante per le posizioni future (le posizioni tanto piú sicure, persuase e attive della poesia dopo il ’30), vi si può trovare anche qualche piega di maggiore ambiguità e incertezza. Infatti qui il Leopardi finisce in certo modo per accedere a quella via che erroneamente il De Sanctis considerava principale del suo pensiero morale e che viceversa non può non apparire in lui secondaria; la via dell’astensione, del non-impegno, che si delineerà piú fortemente soprattutto negli anni fra il ’25 e il ’26, sulla base anche della significativa traduzione del Manuale di Epitteto. In questo dialogo cioè si avverte, da un lato, un chiarimento delle posizioni ideologiche che comportava anche una maggiore aggressività (quale in parte nelle Operette si era sviluppata specie fino all’altezza del Dialogo della Natura e di un Islandese), ma, d’altro lato, si avverte, in alcuni accenni, una certa inclinazione ad astenersi “dalla battaglia”, ad accettare la morale stoica del Manuale di Epitteto.
Il dialogo va inteso dunque anche nella sua complessità. E non è un dialogo (anche se cosí importante per capire meglio certe posizioni ulteriori del Leopardi) che abbia la forza, la centralità, la consequenzialità e la resa poetica che avevano il Dialogo della Natura e di un Islandese o il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare.
Il Dialogo di Timandro e di Eleandro è impostato su due voci: la voce del lodatore e stimatore degli uomini, Timandro (e piú che degli uomini, delle concezioni antropocentriche e ottimistiche), e la voce di Eleandro, corrispondente al Leopardi. Questo personaggio, quando Leopardi iniziò il dialogo, era stato chiamato Misenore, cioè odiatore degli uomini, mentre alla conclusione assunse il nome di Eleandro, fu cioè legato all’idea della compassione verso gli uomini. È chiaro, d’altra parte, che quel nome iniziale di Misenore aveva una sfumatura ironica, non potendo il Leopardi prendere nel dialogo, come vedremo, una posizione effettiva di misantropo.
Tuttavia, è anche vero che la scelta finale del nome di Eleandro batte piú su una certa indulgenza e tolleranza, propria di chi ha capito la vanità di tutte le cose, di chi non può provare sdegni e odii e amori troppo forti, coerentemente alla piega che in questa operetta si avverte verso posizioni meno decise e meno impegnative. Mentre successivamente, nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, il senso della compassione, ma soprattutto il senso degli “altri”, delle persone concrete e dell’amore degli “altri” diventerà ben diversamente forte e funzionerà, come vedremo, anche come spinta verso i nuovi canti del periodo pisano-recanatese.
Il Dialogo di Timando e di Eleandro (costruito su questa base piú incerta che spiega anche la sua minore resa artistica rispetto ai due ultimi dialoghi esaminati) si incentra su alcuni momenti fondamentali, e anzitutto su quello già accennato: il raccordo che Eleandro fa con i filosofi non “moderni”, non dell’“oggi”, ma con i filosofi di un recente passato, in una posizione che egli enuncia anche come tipica di un uomo anticonformista, in un consueto atteggiamento del Leopardi (che nei Paralipomeni amerà chiamarsi il «Malpensante») di «fuori di moda».
A questo punto il dialogo si svolge sull’importanza che gli scritti possono avere rispetto all’utilità della specie umana: Eleandro dirà a Timandro (per il quale varrebbero soprattutto libri del genere morale) che, secondo lui, possono giovare soprattutto i libri poetici:
[...] dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente; cioè libri destinati a muovere la immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi. Ora io fo poca stima di quella poesia che letta e meditata, non lascia al lettore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mezz’ora, gl’impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un’azione indegna. Ma se il lettore manca di fede al suo principale amico un’ora dopo la lettura, io non disprezzo perciò quella tal poesia: perché altrimenti mi converrebbe disprezzare le piú belle, piú calde e piú nobili poesie del mondo.[85]
È una pagina in cui il Leopardi sembra accedere a una idea piú pertinente magari al giovane Leopardi (la poesia contro la ragione), ma che in realtà va molto piú in profondo, legandosi a certi pensieri del 1823: la vera poesia, i libri poetici, siano essi in versi o in prosa (quindi anche le Operette morali), sono quelli che nel lettore muovono l’immaginazione, ma non tanto nel senso che si dice comunemente poetico, estetico, bensí in quanto hanno anche un certo risultato di carattere morale, che almeno per mezz’ora (una determinazione pessimistica, relativa sempre al senso pessimistico dei limiti della generosità umana) lascia nel lettore un sentimento nobile, impedendogli di ammettere per questo tempo un pensiero vile e di fare un’azione indegna. È dunque un pensiero che non guida il Leopardi tanto verso la contrapposizione della poesia alla filosofia, come avrebbe fatto una volta, quanto a un tipo di poesia misurabile soprattutto dai suoi effetti sublimanti, non solo in senso estetico, ma morale.
In una nuova parte del dialogo lo sciocco Timandro si attacca a singole parole dell’avversario senza capirne il nesso profondo; e cosí, alle dolenti considerazioni di Eleandro sui suoi personali rapporti con gli altri uomini (da cui non ha ricevuto «molto buon trattamento», ma neanche «gran male»), egli oppone un’austera risibile condanna della presunta misantropia di Eleandro che non ha scuse particolari e deve essere ricondotta (egli pensa nella sua meschinità) a un’«ambizione insolita e misera di acquistar fama dalla misantropia»[86] stessa. Ciò che permetterà a Eleandro un’altra dolente precisazione del suo stato di non odio, di incapacità di odio, soprattutto perché «il concetto della vanità delle cose umane, mi riempie continuamente l’animo in modo, che non mi risolvo a mettermi per nessuna di loro in battaglia; e l’ira e l’odio mi paiono passioni molto maggiori e piú forti, che non è conveniente alla tenuità della vita. [...] Io non odio né gli uomini né le fiere»[87]. «Non odio». Però, arguisce Timandro, neppure amore. E di nuovo l’obiezione del povero ottimista promuove un’altra dichiarazione amara e triste di un Leopardi che reinterpreta la propria esperienza di delusione e di delusa indulgenza: «Sentite, amico mio. Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva. Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco tepida; non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è possibile. Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di patimento agli altri»[88].
Allora Timandro, con la sua logica mediocre, crede di poter concludere che l’atteggiamento pessimistico di Eleandro è senza ragioni (le uniche che egli può immaginare) e si risolve a chiedergli: «che cosa vi muove a usare cotesto modo di scrivere?»[89].
Siamo condotti cosí al centro del dialogo, alla dichiarazione leopardiana piú alta e feconda anche se qui contenuta in un clima piú rassegnato e malinconico rispetto all’uso che egli già ne aveva fatto in altre operette e a quello che ne farà in futuro.
Eleandro è mosso a scrivere con tanto radicale pessimismo perché cosí vuole il suo bisogno di verità. Bisogno e coraggio di verità (fondamentali motivi dell’animo, del pensiero e della poesia leopardiana) che qui si atteggiano piuttosto nella «intolleranza di ogni simulazione e dissimulazione»: simulazione e dissimulazione «alle quali mi piego talvolta nel parlare, ma negli scritti non mai; perché spesso parlo per necessità, ma non sono mai costretto a scrivere; e quando avessi a dire quel che non penso, non mi darebbe un gran sollazzo a stillarmi il cervello sopra le carte»[90].
Il Leopardi prosegue affermando che gli uomini del suo tempo seguitano a parlare di valori, di progresso, di ottimismo, di virtú, di patria, a cui non credono piú: una mascherata indecente agli occhi del poeta che in un luogo piú intenso dice: «Cavinsi le maschere». Meglio dire le cose come stanno; meglio indicare la miseria degli uomini senza pascersi di vane illusioni:
Cavinsi le maschere, si rimangano coi loro vestiti; non faranno minori effetti di prima, e staranno piú a loro agio. Perché pur finalmente, questo finger sempre, ancorché inutile, e questo sempre rappresentare una persona diversissima dalla propria, non si può fare senza impaccio e fastidio grande. [...] In verità quest’uso mi par come una di quelle cerimonie o pratiche antiche, alienissime dai costumi presenti, le quali contuttociò si mantengono, per virtú della consuetudine. Ma io che non mi posso adattare alle cerimonie, non mi adatto anche a quell’uso; e scrivo in lingua moderna, e non dei tempi troiani. In secondo luogo; non tanto io cerco mordere ne’ miei scritti la nostra specie, quanto dolermi del fato. Nessuna cosa credo sia piú manifesta e palpabile, che l’infelicità necessaria di tutti i viventi. Se questa infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e qualunque altro discorso. Se è vera, perché non mi ha da essere né pur lecito di dolermene apertamente e liberamente, e dire, io patisco?[91]
Eleandro qui passa a delineare il suo atteggiamento verso i mali degli uomini, fatto piuttosto di riso che di protesta e disperazione. E anche questa è una via accessoria, non centrale, è una via che Leopardi in seguito scarterà perché, all’altezza, per esempio, dei Paralipomeni, anche il suo riso acquisterà un’aggressività cosí terribile che la delineazione che egli ne fa qui apparirà del tutto insufficiente.
A questo punto il dialogo sembra giunto alla sua conclusione, perché Timandro (rappresentato come un uomo sostanzialmente debole, che partecipa della “mascherata” di cui Leopardi parlava, che non ha una convinzione profonda, che manifesta o sbandiera i suoi ideali ottimistici non avendone mai fatto una intima verifica) è travolto dalle argomentazioni di Eleandro, al quale però crede di poter opporre un estremo argomento:
Tutti siamo infelici, e tutti sono stati: e credo non vorrete gloriarvi che questa vostra sentenza sia delle piú nuove. Ma la condizione umana si può migliorare di gran lunga da quel che ella è, come è già migliorata indicibilmente da quello che fu. Voi mostrate non ricordarvi, o non volervi ricordare, che l’uomo è perfettibile.[92]
Timandro cioè sostituisce alla sua primitiva idea della felicità attuale ed effettiva dell’uomo la fiducia nella “perfettibilità” futura: dato che esso non è perfetto, può però migliorare o divenire perfetto. Questa teoria è quella che il Leopardi attaccherà piú acremente fino ai Paralipomeni. Anche se per l’ultimo Leopardi va però fatta la distinzione (è uno dei punti su cui ha piú utilmente indagato il Luporini nel saggio ricordato)[93] tra la negazione radicale di questa idea della “perfettibilità” e la posizione invece successivamente enucleatasi in lui di un certo, per quanto limitatissimo, «progresso», basato sul coraggio della verità, sull’accettazione di una «filosofia dolorosa, ma vera», sulla cui sola base l’uomo potrà fondare in qualche modo la sua difficile civiltà. Ma per ora il Leopardi del 1824 nega e irride semplicemente questa perfettibilità, né pensa di opporle una soluzione in qualsiasi modo costruttiva, come potrà avvenire, in certo modo, solo piú tardi.
Il dialogo è chiuso da Eleandro con un innegabile ingorgo di motivi che possono testimoniare ancora i limiti, le difficoltà in cui il Leopardi di questo periodo, malgrado la sua spietata diagnosi, si trovava quanto a conclusioni effettive. Eleandro terminerà, avvalendosi di alcuni anelli intermedi del dialogo, dicendo che se la sostanza di tutta la filosofia è l’infelicità, la vanità di tutto, si deve concludere che la filosofia stessa è inutile, anzi è dannosissima in quanto, conducendo alla conoscenza della verità, conduce anche alla conoscenza totale della vanità della vita umana: essa, quindi, porta alla dissipazione di ogni entusiasmo, di ogni illusione. Tanto che, riprendendo il tema delle illusioni, nell’ultima battuta egli dirà: «lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune o privato»[94]. In questa operetta (pur cosí importante a chiarire la posizione attuale del Leopardi) l’ingorgo è costituito dall’urto fra la necessità di una soluzione da prendere con decisione e le oscillazioni e incertezze che il poeta dimostra in proposito.
Mentre infatti l’ultimo Leopardi tirerà tutte le conclusioni dall’analisi fatta sul terreno della verità, senza ritorni a nessuna forma di illusione, qui invece egli riprende il suo vecchio tema della filosofia dannosissima alle illusioni che, per quanto vane, sono però piú utili alla vita di quanto non sia la verità.
Il dialogo si conclude con uno dei soliti scherzi dolenti, in questo caso piú elegante e meno intenso, quando Eleandro, alla credulità di Timandro sulla perfezione o perfettibilità dell’uomo, oppone ancora una volta che, come i tempi, cosí l’uomo va sempre peggiorando (non senza un’allusione, fondamentale per il Leopardi, alla sua antipatia per le cerimonie, i monumenti d’ogni specie, le cose piú risibili dell’umanità):
Circa la perfezione dell’uomo, io vi giuro, che se fosse già conseguita, avrei scritto almeno un tomo in lode del genere umano. Ma poiché non è toccato a me di vederla, e non aspetto che mi tocchi in mia vita, sono disposto di assegnare per testamento una buona parte della mia roba ad uso che quando il genere umano sarà perfetto, se gli faccia e pronuncisi pubblicamente un panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzato un tempietto all’antica, o una statua, o quello che sarà creduto a proposito.[95]
1 Tutte le opere, I, p. 79.
2 Tutte le opere, I, p. 79.
3 Tutte le opere, I, pp. 80-81.
4 Tutte le opere, I, p. 81.
5 Tutte le opere, I, p. 81.
6 Tutte le opere, I, p. 81.
7 Tutte le opere, I, p. 81.
8 Tutte le opere, I, p. 82.
9 Tutte le opere, I, p. 82.
10 Tutte le opere, I, p. 83.
11 Tutte le opere, I, p. 86.
12 Si noti tra l’altro l’implicazione polemica, qui non sviluppata, di questa riduzione della terra, centro dell’universo di un sistema geocentrico e antropocentrico, a una pallottola; questa terra che invece Monaldo Leopardi desiderava fosse ricollegata al centro dell’universo: «venisse» un nuovo Copernico che rimettesse la terra e l’uomo al centro dell’universo.
13 Tutte le opere, I, p. 87.
14 Tutte le opere, I, pp. 87-88.
15 Tutte le opere, I, p. 90.
16 Tutte le opere, I, p. 91.
17 Cfr. G. Leopardi, Operette morali, seguite da una scelta dei “Pensieri”, Studio introduttivo e commento di M. Fubini, Firenze, Vallecchi, 1933, 3ª ed. riveduta e corretta Torino, Loescher, 1966.
18 Cfr. W. Binni, «Contributo minimo al commento delle Operette morali», «La Rassegna della letteratura italiana», n. 1, 1963, p. 129.
19 Tutte le opere, I, p. 93.
20 Tutte le opere, I, p. 94.
21 Tutte le opere, I, p. 94.
22 Bruto minore, v. 105.
23 Tutte le opere, I, p. 96.
24 Cioè ricchezze maggiori del famoso Eldorado. Le battute leopardiane sono in questi dialoghi gremite di ricordi e di implicazioni. Qui Leopardi aveva presente una pagina volterriana sull’Eldorado, ricordata anche dal Fubini, cui reagisce, con una satira amara e sarcastica, come a qualcosa di mitico e introvabile.
25 È un accenno misogino, uno “scherzo” che altrove, specialmente nelle prime operette, poteva apparire “da tavolino”; ma che qui ha delle risonanze piú amare. Si ricordi d’altra parte che proprio nel periodo in cui il Leopardi scriveva la canzone Alla sua Donna egli aveva tradotto la satira di Simonide sopra le donne. In lui c’era cioè questa base di esperienza delusiva nei confronti delle donne (che tornerà nell’ultimo periodo, nello squilibrio tra la tensione amorosa de Il pensiero dominante o di Amore e Morte e la posizione profondamente misogina di Aspasia) e che ci indica le implicazioni piú profonde e quindi tutt’altro che libresche di queste battute.
26 È un’altra annotazione importante, Malambruno è un uomo che ha fatto esperienza di tutto, anche della malvagità umana.
27 Tutte le opere, I, p. 95.
28 Tutte le opere, I, p. 95.
29 Tutte le opere, I, p. 95.
30 Tutte le opere, I, p. 95.
31 Tutte le opere, I, p. 96.
32 Tutte le opere, I, p. 96.
33 Cfr. W. Binni, «La lettera del 20 febbraio 1823» cit.
34 Tutte le opere, I, p. 101.
35 Tutte le opere, I, p. 101.
36 Tutte le opere, I, p. 103.
37 Tutte le opere, I, p. 103.
38 Tutte le opere, I, p. 103.
39 Tutte le opere, I, p. 103.
40 Tutte le opere, I, pp. 103-104.
41 Tutte le opere, I, p. 104.
42 Tutte le opere, I, p. 105.
43 Tutte le opere, I, p. 105.
44 Tutte le opere, I, pp. 106-107.
45 Cfr. G. Leopardi, Operette morali, a cura di I. Sanesi, Firenze, Sansoni, 1931.
46 Tutte le opere, I, p. 110.
47 Tutte le opere, I, p. 107.
48 Tutte le opere, I, p. 107.
49 Tutte le opere, I, p. 108.
50 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 433-434.
51 F. De Sanctis, Giacomo Leopardi cit., pp. 302-303.
52 Tutte le opere, I, p. 161.
53 A ribadire queste direzioni leopardiane in svolgimento (e il capire questo è fondamentale per ogni retta interpretazione della stessa poesia leopardiana) riporto qui una parte di una lettera del Ranieri al Giordani (citata interamente da Gennaro Savarese in uno studio sui Paralipomeni, uscito presso La Nuova Italia, Firenze 1967, col titolo Saggio sui «Paralipomeni» di Giacomo Leopardi, ora in L’eremita osservatore. Saggio sui «Paralipomeni» e altri studi su Leopardi, Padova, Liviana, 1987, pp. 27-112. La lettera del Ranieri si legge alle pp. 33-34). Ranieri, dopo la morte del Leopardi, intendeva riassumere (e riassumeva di fatto molto correttamente) i principi fondamentali della posizione leopardiana sulla base di opere leopardiane allora inedite, e sconosciute al Giordani cui scriveva; principi certo meglio chiariti e portati a estrema chiarezza e vigore nell’ultima produzione leopardiana, ma in parte già rilevabili fra lo Zibaldone, e le stesse Operette morali. Scrive appunto il Ranieri: «Basta che V.S. sappia che, salvo i volgarizzamenti, le altre cosette tutte insieme contengono una dimostrazione bella e seguita di questi cinque aforismi: 1°. che il principio pensante non è né può esser altro che materia; 2°. che le idee di anima, immortalità, Dio provvidente e somiglianti sono pretti delirii della mente umana; 3°. che l’effetto piú esiziale di questi delirii è stata la religione; 4°. che l’ignoto principio della vita universale non che essere amico del genere umano, è anzi il suo principale nemico e carnefice; 5°. che la società degli uomini non può né deve avere altro fondamento che l’odio comune a questo principio, e i comuni sforzi per trovar quei compensi che si possano contro i malefici effetti di quello».
54 Il Fubini, nel suo commento, ha avvertito la molteplicità e contraddittorietà delle tendenze illuministiche per cui, ad esempio, Voltaire ha avuto anche una direzione deistica e ottimistica (l’idea dell’architetto dell’universo con raccordi di tipo massonico); è certo tuttavia che nel fondo piú intenso di Voltaire (e soprattutto nella fase di romanzi come Candide, Zadig, nel Poème sur le désastre de Lisbonne, in tante voci del Dictionnaire philosophique) c’è una aggressività consequenziaria lucidissima, che mette in discussione la stessa bontà della natura e soprattutto aggredisce ogni sistema ottimistico.
55 Tutte le opere, I, p. 114.
56 Tutte le opere, I, p. 117.
57 Cfr. Poesia e letteratura nelle Operette morali, «Lettere Italiane» , n. 3, 1965, pp. 299-332, poi in Saggi leopardiani cit., pp. 139-192 (la cit. è tratta da p. 150).
58 Tutte le opere, I, p. 114.
59 Tutte le opere, I, p. 114.
60 Tutte le opere, I, p. 114.
61 Tutte le opere, I, p. 115.
62 Tutte le opere, I, p. 115.
63 Tutte le opere, I, p. 115.
64 Tutte le opere, I, p. 116.
65 «E capital carnefice e nemica», ripeterà e amplierà nei Paralipomeni della Batracomiomachia (c. IV, st. 12, v. 8; cfr. Tutte le opere, I, p. 266) condensando nell’ultimo periodo della sua esperienza e opera, in forme piú assolute e pregnanti filosoficamente e liricamente, tante accuse minutamente e analiticamente esposte nello Zibaldone.
66 Proprio alle soglie della morte, nel Tramonto della luna, il Leopardi nella descrizione del necessario percorso biologico dell’uomo si indugia nella spietata diagnosi della vecchiaia, tormento crudele che immaginari dei perfidi e ingegnosi hanno escogitato come stato intermedio fra il breve sospiro vitale della giovinezza (ma «Dove ogni ben di mille pene è frutto») e la morte: «Troppo mite decreto / quel che sentenzia ogni animale a morte, / s’anco mezza la via / lor non si desse in pria / della terribil morte assai piú dura. / d’intelletti immortali / degno trovato, estremo / di tutti i mali, ritrovàr gli eterni / la vecchiezza, ove fosse / incolume il desio, la speme estinta, / secche le fonti del piacer, le pene / maggiori sempre, e non piú dato il bene» (vv. 39-50; Tutte le opere, I, p. 41).
67 Tutte le opere, I, p. 116.
68 Si pensi ancora al grande canto Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, ai vv. 77-78: «A tutti noi che senza colpa, ignari, / né volontari al vivere abbandoni».
69 Tutte le opere, I, p. 116.
70 Tutte le opere, I, p. 117.
71 Tutte le opere, I, p. 117.
72 Tutte le opere, I, p. 117.
73 Tutte le opere, I, p. 110.
74 Tutte le opere, I, p. 110.
75 Tutte le opere, I, p. 111.
76 Tutte le opere, I, p. 111.
77 Tutte le opere, I, p. 112.
78 Tutte le opere, I, p. 112.
79 Tutte le opere, I, pp. 112-113.
80 Tutte le opere, I, p. 113.
81 Tutte le opere, I, pp. 113-4.
82 Tutte le opere, I, p. 1257.
83 Cfr. le lettere del 23 gennaio 1825 a p. 123, del 26 febbraio a p. 128, del 23 marzo a p. 142, del 30 giugno a p. 163 e ancora del 21 luglio a p. 166 e del 14 agosto a p. 185 dell’Epistolario di Giacomo Leopardi, a cura di F. Moroncini cit., III. Per dare una minima idea della singolare incomprensione da parte dello zio Antici del deciso carattere di Giacomo e del radicalismo inestirpabile della sua prospettiva antitetica a quella della Restaurazione e dello spiritualismo, che lo zio considerava sana e incontrovertibile, desidero qui riportare qualche lacerto dell’accorata serie di esortazioni al «carissimo e promettentissimo Nepote». Cosí nella lettera citata del 23 gennaio 1825, dopo essersi rallegrato per l’elogio (del Montani) delle «vostre magistrali Canzoni», aggiunge: «Ma permettete che vel dica, ma quanto piú bell’incenso ancora avrebbe fumato per voi, caro Nepote, se piangendo coi vostri classici versi la degradazione d’Italia, ne aveste indicata la vera causa, cioè l’irreligione. [...] Se scriverete un’Iliade dopo un breve tratto di tempo non ne avrete alcun bene; se vi unirete coi pochi valorosi, che consacrano i frutti del loro ingegno a ricondurre la morale religiosa sulla terra, ne avrete un guiderdone eterno». E lodandolo perché lo sapeva impegnato a tradurre operette morali da autori greci, se ne rallegrava perché «Per fare arrossire i filosofanti moderni, non ci è di meglio che controporre ad essi i moralisti antichi. Questi, meno il sozzo gregge di Epicuro, insegnavano sempre che non si può essere né vero uomo né vero cittadino senza buoni costumi derivanti dal timor degli Dei». O ancora, in quella del 23 marzo, riferendo a Giacomo gli alti elogi del Reinhold per le canzoni, aggiungeva: «Io per me credo che non lascierebbero nulla a desiderare, se aveste in ciascuna di esse accennato il motivo del vostro compianto sull’Italia. Gli animi sono vili, perché guasti da irreligione». O infine questa sulla base di presunte osservazioni del Bunsen nella lettera del 14 agosto: «Quella lettera sulle parole di Bruto – quella Canzone sull’opera scoperta da Mai – [...] quei tanti e tanti pensieri sparsi con tanta bella poesia, e con tanto poca saviezza in tutto quel volumetto, vi fanno comparire quello che non siete, e non potreste mai essere senza rendervi per sempre infelice. Ho chiesto da lui il permesso di comunicarvi queste sue osservazioni, che sono, come già vi accennai, anco le mie, giacché troppo mi preme la vostra temporanea ed eterna felicità».
84 Cfr. Epistolario di Giacomo Leopardi, a cura di F. Moroncini cit., III, pp. 166-167.
85 Tutte le opere, I, pp. 161-162.
86 Tutte le opere, I, p. 162.
87 Tutte le opere, I, p. 162.
88 Tutte le opere, I, pp. 162-163.
89 Tutte le opere, I, p. 163.
90 Tutte le opere, I, p. 163.
91 Tutte le opere, I, p. 163.
92 Tutte le opere, I, p. 164.
93 C. Luporini, Leopardi progressivo cit.
94 Tutte le opere, I, p. 165.
95 Tutte le opere, I, p. 165.